Ha finalmente trovato una distribuzione – uscirà domani a Milano e Roma, mentre per il resto dell’Italia bisognerà aspettare la prossima settimana – l’ultimo film di Luca Guadagnino ("Melissa P.", "The Protagonists"), l’ambizioso melò altoborghese "Io sono l’amore", accolto in maniera contraddittoria a Venezia tra fischi misti ad applausi del pubblico e apprezzamenti di parte della critica.
È destinato probabilmente a dividere anche l’audience tradizionale questo ambizioso affresco di una ricca famiglia industriale milanese, i Recchi, asserragliata in una splendida e austera villa sommersa dalla neve, dove prendono corpo le strategie competitive dei vari membri attraverso i freddi riti di condivisione tipici dell’alta società tra argenteria smaltata e servitù silente.
Il vero cuore del film è la mamma di origine russa, Emma, interpretata dalla sublime attrice jarmaniana Tilda Swinton, premio Oscar per "Michael Clayton", ormai diventata la musa di Guadagnino con cui ha lavorato per ben sette anni a questo progetto. Sposata senza amore col venale Tancredi (Pippo Delbono in un’interpretazione dalla teatralità dissonante), la diafana Emma ha tre figli adorati: Edoardo, Gianluca ed Elisabetta. Quando a villa Recchi si insedia il giovane e solare cuoco Antonio (Edoardo Gabbriellini), Emma se ne innamora incondizionatamente, ricambiata, prendendo poco per volta consapevolezza della gabbia emotiva in cui è rimasta prigioniera per troppo tempo e da cui si convince di doversi liberare per sempre, costi quel che costi.
Punta alto, "Io sono l’amore", con un occhio alla puntigliosità viscontiana e l’altro all’etica pasoliniana di "Teorema" (la passione sentimental-erotica come forza rivoluzionaria in grado di scombinare l’ordine sociale), con un certo rigore stilistico e un’inappuntabilità formale che affascinano. Non tutto, però, è risolto – troppe metafore, troppe facili simbologie – e tra la Swinton e Gabbriellini manca quell’alchimia necessaria a far infiammare lo schermo: la scena di sesso bucolica tra api impollinatrici e fiori sbocciati è così rischiosa da lasciare francamente interdetti.
Uno dei personaggi più interessanti, purtroppo relegato a uno spazio narrativo minimo (ai cosceneggiatori Ivan Cotroneo e Barbara Alberti chiediamo: perché è così compresso?), risulta la figlia Elisabetta interpretata con dovizia di sottotoni da Alba Rohrwacher che dichiara alla madre la propria omosessualità e da lei viene silenziosamente compresa e amata per la sua schiettezza: anzi, diventa una sorta di ‘specchio morale’ in cui identificare il proprio desiderio di libertà e indipendenza (lo sguardo che le due donne si scambiano nel prefinale è di un’intensità struggente).
"Quando sono arrivata sul set" spiega la Rohrwacher "Luca mi ha tagliato i capelli, mi ha dato due paia di pantaloni, una borsa e tanto è bastato a farmi entrare nel corpo di Elisabetta. Non mi era capitato mai che fosse sufficiente tanto poco, quasi senza parole. Quando accade un miracolo simile, significa che tutto intorno a te è perfetto. Subito ho trovato una camminata, uno sguardo, Elisabetta. Perché ero circondata da una verità assoluta. E non vale solo per me".
È un film insolito e piuttosto alieno per il panorama italiano, questo "Io sono l’amore", e scatenerà sicuramente accesi dibattiti all’uscita dalla sala. L’eccelsa Tilda Swinton, elegante e tormentata in Fendi e Dior – anche se diretta con un’accondiscendenza che mette troppo in ombra gli altri personaggi – vale da sola il prezzo del biglietto, come sempre.