La selezione che viene operata all’interno delle discipline agonistiche non lascia spazio ad alcuna possibilità di tutela delle cosiddette fasce deboli: lo sport ha in sé, come caratteristica, la gara e la competizione, oltre che il senso di misura estetica del corpo, inteso come tempio e metro di paragone con l’altro.
L’esasperazione di questi concetti della cultura sportiva, che hanno portato generazioni di sportivi, anche dilettanti, a fare uso di sostanze dopanti, non lascia in realtà spazio al principio fondante dello sport, cioè alla celebrazione della fisicità come dato positivo e non discriminante; lo sport che unisce i popoli e le razze.
In più, il machismo esasperato che si respira nei centri sportivi, il muscolo come elemento di virilità e la forza come simbolo di potenza sessuale, discriminano spesso il gay, visto nell’immaginario collettivo come persona debole e passiva, nello sport più che in altri campi della vita sociale. Si crede che per il gay vadano benissimo l’aerobica, lo step o il fitness, ma quando si parla di sport da “uomini” come il calcio, il pugilato, il ciclismo, le arti marziali o il body building, non esiste la possibilità di vivere la propria omosessualità in modo libero e chiaro. Per non parlare degli sport di squadra a cui si aggiunge anche il problema di fare spogliatoio, luogo in cui anche il maschietto più duro si sente indifeso perché nudo.
La realtà dei fatti è comunque diversa. Così come in tutti gli altri luoghi in cui si fa vita sociale, la presenza degli omosessuali nello sport è forte come sempre, in tutte le discipline, a prescindere dalla durezza o meno. Il problema, semmai, si riscontra nella capacità degli sportivi di vivere la propria omosessualità liberamente e senza condizionamenti. Sono pochi ancora ad oggi gli atleti che hanno pubblicamente dichiarato la propria omosessualità, probabilmente per i problemi di cui abbiamo detto. Rimane nella memoria l’outing effettuato dal grande Greg Louganis, pluricampione mondiale e campione olimpico di tuffi dal trampolino, che si dichiarò in occasione delle semifinali delle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984.
Ma mentre questo è uno dei rari esempi nello sport maschile, anche se non mancano calciatori, pallavolisti, ed atleti in genere che appartengono “alla famiglia”, nel settore femminile sono molte le lesbiche che hanno avuto il coraggio di dichiararsi, a partire da famose tenniste come Martina Navratilova, che presentò la sua partner in occasione della Finale di Wimbledon.
Le cause della maggiore visibilità lesbica negli sport sono da ricercarsi nelle performance. Erroneamente si pensa che una donna mascolinizzata abbia un rendimento superiore rispetto ad un uomo femminilizzato, che perde così in forza e determinazione. Se oramai nella vita di tutti i giorni, più o meno, si tende ad accettare l’omosessualità, la strada da compiere nella disciplina sportiva è ancora lunga. Le Associazioni Sportive omosessuali, come il Gruppo Pesce sono realtà importanti per evidenziare come sport e omosessualità non siano antitetici, ma le cosiddette Olimpiadi Gay rimangono più che altro fenomeni di costume, e la loro eco si esaurisce con lo spegnersi della manifestazione stessa. Quello che manca è una sana e vera educazione allo sport che sfati i miti e che permetta alle persone di avvicinarsi alle discipline sportive senza tenere conto del loro orientamento sessuale.
Anche le Associazione di tutela al diritto allo sport sono colpevolmente manchevoli da questo punto di vista. L’omosessualità viene tollerata purché non sia troppo palese ed aperta. Mentre esistono dei settori che garantiscono l’accesso a pieno titolo per altre minoranze quali disabili, minori a rischio o persone indigenti, ancora il mondo dell’associazionismo sportivo non ha fatto granché di utile per perorare le pari opportunità nello sport senza discriminazioni sessuali. Ma non bisogna fermarsi ad aspettare che altri concedano diritti che ci spettano; l’assenza di persone che hanno il coraggio di dichiararsi e che vivono la propria omosessualità di nascosto e con vergogna, è esempio di una verqa e propria autodiscriminazione.
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