LIDO DI VENEZIA – Sorpresa. Chi lo direbbe che un film hollywoodiano di poco successo in patria, sulla carta molto convenzionale, di quasi due ore e mezza, su un campione di boxe che emerge da una povertà estrema (e quindi in odore di agiografia) scorra così liscio e coinvolga così tanto da far pensare allo scorrere dei titoli di coda: “Ma come, è già finito?”. ‘Cinderella Man – una ragione per lottare‘ di Ron Howard è infatti un grande film su una splendida storia vera, di quei classici prodotti americani fatti talmente bene che solo uno snobismo preconcetto nei confronti del cinema spettacolare potrebbe oscurarne la riuscita al botteghino italiano.
Grande merito va a un titanico Russell Crowe (Clicca qui per la galleria), smagrito di una ventina di chili, mai così sexy, nel ruolo di James J. Braddock, ‘il bulldog di Bergen’, un dilettante del New Jersey famoso per il suo destro potente, diventato una grande promessa della boxe fino a una schiacciante sconfitta nel 1929 per mano del campione dei pesi massimi Tommy Lougharn che lo batté dopo quindici difficili riprese causandogli una ferita alla mano che si rivelò decisiva per compromettergli la carriera. Nel frattempo in America allungava la sua ombra la Grande Depressione, col crollo della borsa (le azioni ordinarie persero il 40% del valore nominale) e un impoverimento generalizzato senza precedenti (un americano su quattro era disoccupato).
Nel giro di pochi anni Braddock, la fedele moglie Mae e i suoi tre figli finirono sul lastrico, con poco cibo e senza corrente elettrica. Qualche lavoretto saltuario al porto non garantiva a Jim di sfamare la sua famiglia. Grazie al suo infaticabile manager Joe Gould (l’ottimo caratterista Paul Giamatti) nel 1934 ottiene la possibilità di combattere contro John ‘Corn’ Griffin in un incontro creato ad arte per garantire ai bookmakers la certezza che Braddock avrebbe perso. Invece, contro ogni previsione, Braddock vinse e arrivò poi a mettere al tappeto anche il campione di pesi massimi leggeri John Henry Lewis e in seguito Art Lasky. Intanto, grazie al New Deal di Roosevelt, anche l’America si stava riprendendo. Ma il colpo più sensazionale della sua carriera fu la vittoria ai punti contro il supercampione Max Baer che sul ring aveva già ucciso due pugili, arrogante donnaiolo bello come un divo di Hollywood, in un emozionante match finale reso sullo schermo cinematografico con un climax di tensione e ritmo davvero eccezionale. Il soprannome di ‘Cenerentola del ring’ gli fu attribuito dall’esperto di sport Damon Runyon proprio perché la sua vicenda aveva davvero il sapore della favola.
Nel film viene reso benissimo il clima di disperazione e smarrimento di una nazione allo sbando in cui pullulavano nelle periferie delle grandi città le misere baraccopoli dette ‘Hooverville’ in omaggio al presidente Herbert Hoover che non riuscì a realizzare nessun programma federale in aiuto dei più bisognosi. Il bravo regista non indugia nel patetico, crea grandi scene misurate e realistiche, rende sopportabile persino una Renée Zellweger che trattiene a sufficienza le sue smorfie abituali nel ruolo della moglie sottomessa che non volle mai vedere un incontro del marito. C’è anche un leggero sottotesto gay tra il manager che sembra vivere solo per il suo campione e Braddock, alimentato da eloquenti battute quali “Vorrei baciarti” “Non davanti ai bambini”. ‘Cinderella Man’ sarà sicuramente un front runner per i prossimi premi Oscar.
Botte e pugni ma ben poco sportivi si son visti anche in ‘Hate Crime‘ di Tommy Stovall, un solido thriller gay che ha inaugurato le Giornate di Cinema Omosessuale in programma parallelamente alla Mostra nella sala B del Cinema Astra (in via Corfù 12, a due passi dall’imbarcadero) e che il prossimo anno potrebbero essere conglobate nel programma ufficiale del Festival con probabile destinazione la Sala Perla.
In un quartiere residenziale tipicamente americano con villette e giardini tutti uguali, vive tranquillamente una coppia di giovani gay, Robbie e Trey. Nella casa a fianco si trasferisce un nuovo vicino, Chris Boyd, figlio di un predicatore fondamentalista, e i due capiscono subito l’omofobia del nuovo arrivato non appena questi li vede baciarsi con passione. Quando Trey muore per le conseguenza di un brutale pestaggio a colpi di mazza da baseball avvenuto mentre passeggiava col suo cane, il principale sospettato è proprio Chris ma Robbie, che di lì a breve avrebbe ‘sposato’ il compagno in una cerimonia con tanto di scambio di fedi nuziali, non ha appoggi dal poliziotto poco collaborativo che indaga sul caso e arriva persino a sospettare di lui.
Buona sceneggiatura e ottimo cast (c’è pure il candidato all’Oscar per ‘Che mi dici di Willy?’ Bruce Davison nei panni del predicatore che si improvvisa detective e scopre l’omosessualità repressa del figlio) anche se la svolta giustizialista del finale è un po’ troppo lambiccata. Toc, toc, distributore italiano cercasi.
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