È nata una stella. Si chiama Tahar Rahim ed è il protagonista assoluto del più bel film in circolazione nelle sale, il magnifico dramma carcerario “Il profeta” diretto dal francese Jacques Audiard (che già si era avvicinato al capolavoro firmando l’intensissimo “Sulle mie labbra” con Vincent Cassel). Ventottenne francese di origine algerina, tenebroso ma fanciullesco, capace di apparire rude e tenero contemporaneamente, Rahim è balzato all’onore delle cinecronache grazie alla memorabile interpretazione dell’arabo Malik El Djebena, diciannovenne analfabeta condannato a sei anni di carcere che si trasformano paradossalmente in un vero e proprio apprendistato del crimine. Grazie alla protezione di un boss corso, César Luciani (un segnato Niels Arestrup), Malik si trasforma da vittima sacrificale predestinata in stimato killer dopo aver accettato di uccidere un altro detenuto, Reyeb (Hichem Yacoubi), un connazionale gay che gli cederebbe del fumo in cambio del sesso orale.
L’improvvisata cella-alcova diventa quindi una camera di morte dove Malik si scopre freddo omicida sgozzando Reyeb con una lametta. Non viene scoperto (o meglio, viene coperto) e così, mentre la sua condotta apparentemente irreprensibile gli consente riduzioni di pena e permessi, gli vengono commissionati da Luciani importanti contatti strategici con altri boss fuori dal penitenziario (un curioso episodio di premonizione gli farà acquisire il soprannome di ‘Profeta’ a Marsiglia). Il fantasma dell’omosessuale, però, lo perseguiterà in forma di incubi per anni finché la sua coscienza oppressa dal senso di colpa non gli darà una tregua – lo vede accoccolarsi nel letto con lui, prendere fuoco, fumare dalla ferita nella giugulare – ma i libri visti nella sua cella saranno uno sprone per studiare tra le sbarre, soprattutto le lingue, così da entrare in confidenza con i diversi gruppi etnici che popolano il microcosmo carcerario.
Duro, tesissimo, diretto con virtuosismo e soluzioni di una certa originalità quali scritte cubitali per presentare i personaggi o oscuramenti di parte dell’immagine per far risaltare un singolo dettaglio, “Il Profeta” (ma il titolo originale è “Un prophète”, cioè “Un profeta”, proprio per renderlo scevro di ogni misticismo religioso) ha il suo punto di luce proprio nel talento naturale di Tahar Rahim che buca lo schermo e ammalia lo spettatore. Prima di questo acclamato film di genere vincitore del Grand Prix a Cannes e nominato all’Oscar, Rahim aveva fatto solo qualche sporadica apparizione in piccole produzioni pure televisive mentre ora è richiestissimo anche grazie ai premi accumulati: agli ultimi César, gli Oscar del cinema francese, si è aggiudicato due premi di solito consequenziali nel tempo, cioè come migliore speranza maschile e miglior attore.
Lo vedremo a breve nel drammatico “Bitch” (“Puttana”), il prossimo lavoro del regista cinese Lou Ye, autore del melò gay “Spring Fever”, e nell’epico “The Eagle of the Ninth” di Kevin Mcdonald ambientato nelle highlands scozzesi ai tempi dell’Impero Romano e incentrato sulla ricerca da parte di un giovane centurione di una legione misteriosamente scomparsa.
Certo, vista la triste sorte a cui condanna l’unico personaggio omosex del film, forse Tahar Rahim non diventerà presto un’icona gay, ma indubbiamente il suo fascino indomito e selvaggio troverà riscontro anche nel pubblico queer (non mancano due intriganti scene di accennata sottomissione sotto le docce, più Fassbinder che Genet, che potrebbero solleticare gli amanti del genere).
Insomma, segnatevi questo nome perché ne risentiremo parlare.
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