Avere fratelli maggiori aumenta le possibilità di nascere gay: a suggerirlo uno studio della Brock University.
Lo studio, “Male Homosexuality and Maternal Immune Responsivity to the Y-Linked Protein NLGN4Y”, è stato pubblicato ieri – lunedì 11 dicembre 2017 – sul Proceedings of the National Academy of Sciences ed è stato condotto dal professor Tony Bogaert in collaborazione con alcuni ricercatori provenienti da Harvard e dalla Toronto University. Ma cosa svela, nello specifico, la ricerca?
La ricerca sostiene che avere un figlio maschio inneschi una reazione immunologica nelle mamme, aumentando la possibilità che i successivi figli maschi siano gay. Le possibilità che un figlio maschio sia gay sono attorno al 3%, ma per chi ha tre fratelli maggiori – ad esempio – le possibilità raddoppiano: 6%. Perché? Le femmine hanno due cromosomi X, i geni che definiscono il sesso biologico di un bambino, i maschi uno X e uno Y: quest’ultimo è quello che provoca la reazione materna a livello fisico. Dopo aver avuto un figlio maschio, in sostanza, il corpo della madre reagisce contro il cromosoma Y, creando un anticorpo chiamato anti-NLGN4Y. Questo anticorpo, ormai presente nella madre in ingenti quantità, può condizionare lo sviluppo cerebrale di futuri figli maschi.
Controlli statistici avrebbero dimostrato che le madri di figli gay, in particolare quelli con fratelli maggiori, abbiano tassi di anti-NLGN4Y superiori rispetto alle altre madri, comprese quelle con figli eterosessuali.
Il professor Bogaert, uno dei massimi esperti di sessuologia al mondo, spiega che lo studio in questione ha prodotto alcune delle più significative scoperte in materia di orientamento sessuale maschile degli ultimi 10-15 anni: “In primis solidifica l’idea secondo cui, almeno negli uomini, ci sia una profonda base biologica a determinare l’orientamento sessuale. L’omosessualità non è una scelta, ma una predisposizione innata. In secundis lo studio suggerisce che i fattori immunologici dovrebbero essere considerati come quelli genetici e ormonali come possibili influenze biologiche per l’orientamento sessuale”. Gli autori, ad ogni modo, assicurano che lo studio rappresenta solo un primo passo, non una prova assoluta, e che si potrà lavorare ancora in questa direzione.
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