Jannini: l’omofobo è come un malato, va compreso, aiutato e curato

L'omofobia è una malattia: abbiamo intervistato il Professore che ha guidato la ricerca

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E’ di qualche giorno fa la notizia di una interessantissima ricerca scientifica che avvalora la tesi che l’omofobia spesso si accompagna a “comportamenti psicotici, meccanismi di difesa immaturi e modalità di attaccamento piene di paura”. A sostenerlo è stato uno studio italiano dell’Università Tor Vergata di Roma e dell’Università degli Studi dell’Aquila, pubblicato giorni fa sulla prestigiosa rivista “The Journal of Sexual Medicine”. Del team fa parte il professor Emmanuele A. Jannini, co-autore dello studio, docente di sessuologia medica a Tor Vergata e presidente della Società Italiana di Andrologia e Medicina Sessuale. Gay.it lo ha intervistato.

Professor Jannini, quali sono state le motivazioni che vi hanno portato a dar vita a questa ricerca?
Questa ricerca è nata da un’idea di Giacomo Ciocca che è dottore di ricerca in sessuologia, il primo italiano a laurearsi in sessuologia peraltro. E’ stato lui che ha deciso di utilizzare un test psicometrico sull’omofobia che lui personalmente ha validato applicandolo sugli studenti dell’Aquila. L’idea nasce da una considerazione che avevo fatto quanto anni fa avevo scritto una review sulla biologia dell’omosessualità, chiudendo in qualche modo il dibattito se l’omosessualità fosse o meno una malattia: in quella circostanza avevo sostenuto che sappiamo sicuramente che non è una malattia, mentre stiamo cominciando ad accumulare evidenze sul fatto che ad esserlo sia l’omofobia. Giacomo quindi ha cercato di dare sostanza scientifica a questa tesi con una indagine statistica molto sofisticata, tanto da essere pubblicata sul giornale di sessuologia più importante del mondo. Fino ad adesso, del resto, l’omofobia non era mai stata studiata in termini scientifici.

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Cosa vi ha portato a scoprire questa ricerca?
Che vi sono alcuni tratti della personalità che costituiscono un fattore importante per lo sviluppo dell’omofobia. Nessuno è in grado di stabilire un rapporto di causa e di effetto, per carità, ma l’idea che ci siamo fatti è che vi sono tratti della personalità che più facilmente di altri assorbono dei messaggi sociali, educativi ed esperienziali negativi sull’omosessualità generando per l’appunto omofobia. E questi tratti della personalità sono tutti legati alla paura ed al timore. Eliminando il termine “omofobia” nel nostro test – altrimenti sarebbe stata la dimostrazione dell’acqua calda -, attraverso una serie di domande capaci di svelare per l’appunto questi contenuti fobici, è emerso con chiarezza che ci sono aspetti della personalità caratterizzate dall’incertezza, dall’insicurezza e dalla paura che noi più facilmente troviamo in questi che definirei quasi “pazienti”. Quasi, infatti, mi verrebbe da usare questo termine, perché comunque queste caratteristiche psicopatologiche fanno diventare queste personalità quasi “malate”. Uso con attenzione questo termine, nel senso anche più buono, perché patologizzare a me non piace mai, ma parliamo di personalità che hanno bisogno di identificare continuamente il proprio genere in virtù di una insicurezza di fondo e che per farlo ricorrono spesso a comportamenti asociali se non, in alcuni casi estremi, violenti.

Quindi lei ci sta dicendo che una persona che cresce e si sviluppa in un ambiente gay friendly, se ha quei tratti della personalità che avete individuato può sviluppare dell’omofobia?
Ho detto il contrario. I dati vanno nella direzione opposta: se ci sono dei messaggi omofobici, è più probabili che questi si strutturino e si costruiscano in una personalità debole, fragile e timorosa. Non ho studiato l’omofilia, ma l’omofobia. Delle varie possibilità con cui ci si rapporta con l’altro da sé e con le sollecitazioni ambientali, lo stile che più facilmente viene riscontrato nell’omofobo è legato dal timore e dalla paura.

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Ma paura di cosa?
Se uno vede mangiare un gelato per strada non è che diventa un “gelatofobo”. Ma se uno vede due persone dello stesso sesso che si abbracciano camminando e ribolle di ira nei confronti di costoro, sfociando a volte anche nella violenza, è evidente che ci deve essere un contenuto psicopatologico importante.

C’è una tesi che circola da tempo nella comunità gay internazionale e che in gran parte gli omofobi sarebbero persone che hanno dubbi sul proprio orientamento eterosessuale. Lei va oltre a questo ragionamento?
Questa tesi non la trovo assolutamente non condivisibile, ma si basa su una opinione e non sull’evidenza. E’ anche mia opinione che vi possano essere questi aspetti cui lei fa riferimento, ma la nostra ricerca è una ricerca scientifica. Vado però oltre. Secondo la tesi che lei ha citato, un omofobo sarebbe un omosessuale che teme di essere tale ed in quanto timoroso del proprio orientamento eserciterebbe un giudizio violento nei confronti di chi lo è. Io posso semplicemente rimanere in una analisi di quelli che possono essere i timori di chi è omofobo, tra i quali ovviamente vi può essere il proprio orientamento omosessuale non accettato. C’è un problema che è tipicamente degli uomini che è quello dell’identità di genere maschile: a differenza infatti delle donne, quella maschile è biologicamente un’identità di genere fragile e costruita di giorno in giorno. Il maschio è biologicamente insicuro della propria mascolinità che ha quindi continue bisogno di conferme: ci sono maschi che si accontentano dei primi passi nella loro vita sessuale per confermare la propria identità e successivamente hanno bisogno di conferme minimali, ed altri che invece continuano a cercarle per tutta la vita, sviluppando paure e timori che possono anche sfociare per l’appunto in omofobia. La tesi che lei ha citato parte dal presupposto tutto da dimostrare che, in fondo, tutti siano omosessuali o che tutti abbiano un’anima gay: sono le idee di Freud, per capirci, ma sono ancora tutte da dimostrare scientificamente.

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Che consigli infine lei si sente di dare ad una persona omosessuale che si ritrova di fronte a un omofobo col quale è in qualche modo costretto a che fare per ragioni di parentela, amicizia o lavoro?
Proverò a darle una risposta da sessuologo, aldilà quindi della ricerca. Il consiglio più sensato è quello di riconoscere il livello di sofferenza che l’orientamento omosessuale genera nelle persone più fragili, senza ovviamente tollerare comportamenti che sono e devono rimanere inaccettabili. L’omofobia è un segno di debolezza e fragilità, ma però non è una condanna a morte: l’omofobia può essere modificata tramite un lavoro profondo su sé stesso. L’omofobo ha anzi il dovere di lavorare su sé stesso e di richiedere un aiuto professionale laddove non sia capace di farlo da solo: se non lo fa, va accompagnato a farlo, rassicurandolo che la sua mascolinità non riceverà nessuna ferita.

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