Un racconto a due identità: intervista a Mohamed Maalel

Al Salone Internazionale del Libro di Torino abbiamo incontrato Mohamed Maalel, autore di "Baba", il romanzo edito da Accento Edizioni che affronta i temi della famiglia, dell’appartenenza e dell’identità.

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Un racconto a due identità: intervista a Mohamed Maalel - Matteo B Bianchi 4 - Gay.it
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Baba in tunisino significa papà. È una parola rotonda, una parola che si fa baciare, un bacio che si fa parola. Baba è una parola che abbraccia, che si mangia, una parola di burro. Eppure un padre, a volte, è tutto tranne che una cosa dolce. Un padre, a volte, è un concetto che stermina, una parola che fa paura, urla e poi picchia. Baba è anche il titolo del romanzo d’esordio di Mohamed Maalel, edito da Accento Edizioni. Una parabola del padre raccontata con occhi di figlio, una storia famigliare e di formazione, sospesa tra due lingue e due culture. Ahmed, il protagonista, è metà pugliese e metà tunisino. Figlio, da un lato, di un genìa matriarcale e dall’altro di un padre patriarca, devoto ad Allah e votato a un ideale irraggiungibile di virilità. Quello raccontato da Maalel è anche un percorso di presa di coscienza della propria (omo)sessualità e del proprio posto nel mondo, una riflessione importante sui temi dell’appartenenza e dell’identità.

Al Salone del Libro abbiamo incontrato Mohamed Maalel.

Baba è, sì, un romanzo famigliare, ma soprattutto una storia di formazione, che racconta la presa di coscienza di una persona di sesso maschile. All’inizio c’è una maschilità molto feroce, culturalmente imposta, che poi viene quasi messa in discussione. Che mascolinità volevi raccontare?

Non mi sono posto degli schemi. Ho cominciato caratterizzando i miei personaggi e prima di tutto il padre, un uomo molto concentrato sulla sua virilità. Lui cresce portando certi schemi di riferimento sessuali anche nella vita dei propri figli e quando scopre che Ahmed ha una tendenza a riferirsi alle figure femminili della famiglia, inizia a preoccuparsi e così apre il suo comportamento a un tipo di maschilità tossica. Così, Ahmed inizia a pensare che i suoi riferimenti femminili sono sbagliati, che un uomo dev’essere un uomo e avere atteggiamenti da uomo. Quando poi si accetta nella sua complessità, capisce che quei tratti femminili sono parte di sé.

Nel romanzo scrivi che è arrivato il tempo di un racconto a due identità e ancora prima parli del protagonista facendo riferimento al suo dubbio di appartenenza, che deriva dall’essere figlio di due famiglie, di due lingue e due culture. Cosa vuol dire appartenere e a cosa appartiene davvero Ahmed?

Quando sono arrivato alla conclusione di Baba avevo molte domande: non sapevo se raccontare più la parte tunisina o quella italiana. Mi sono chiesto se mi sentissi più italiano o tunisino, ma io mi son sempre sentito entrambe le cose. Italiano quando da nonna mangiavo patate, riso e cozze e tunisino quando mamma cucinava il cous cous. Ho messo in dubbio questa appartenenza quando alle scuole medie mi prendevano in giro, chiamandomi marocchino. In quel momento ho iniziato a chiedermi come mai tutti mi chiamassero marocchino quando ero tunisino e forse questa cosa già fa capire che per me è sempre stato normale essere tunisino. Lì ho scoperto di essere diverso. Ho cominciato a pormi molte domande, mi sono allontanato da me stesso. Per recuperare le mie origini italiane e tunisine ho fatto anche un Erasmus, poi è subentrata anche la malattia di mio padre. Ci sono arrivato in maniera spontanea.

Nel romanzo parli anche di cultura tunisina e religione musulmana, che inevitabilmente si intrecciano a una certa idea di maschilità e omosessualità. Cosa volevi fare emergere mettendo in relazione il discorso sulla religione e quello sulla mascolinità non convenzionale? Quanti stereotipi ci sono ancora in questo senso?

Non volevo raccontare stereotipi, volevo raccontare la mia esperienza. Mio padre era una persona molto moderata, non era un integralista. Mia madre non ha mai indossato il velo, per esempio. Papà ha vissuto, sì, la religione in modo autoritario, ma solo perché aveva voglia di trasmettere valori religiosi ai propri figli. Raccontando l’Islam e la cultura musulmana, ho preferito focalizzare l’attenzione sull’esperienza molto negativa nella scuola coranica integralista che ho frequentato da bambino. Anche oggi, noi abbiamo pregiudizi sulla religione musulmana perché raccontiamo solo gli estremismi e non mettiamo in luce altri aspetti. Per esempio, l’Islam rispetta moltissimo le altre culture. Ho preferito raccontare tante facce di una stessa cultura.

Secondo te c’è un’apertura reale delle religioni nei confronti dell’omosessualità?

Io sono ateo, non appartengo più a niente. In Tunisia c’è stato un grande cambiamento, soprattutto dopo la Primavera Araba, anche dovuto a un processo di ruralizzazione e alle relative migrazioni dalle campagne alle città. Nel 2017 quando sono tornato lì ho visto più povertà, ho visto tanta paura per le strade, donne che non guardavano in faccia nessuno, coperte integralmente. A loro era proibito parlare con gli uomini, non solo quelli che venivano da fuori, ma anche con gli stessi compagni di università. Per quanto riguarda l’omosessualità, ci sono dei movimenti politici che però hanno difficoltà a manifestare la propria libertà. Voglio raccontarti la storia di Rami, un ragazzo tunisino che adesso vive in Canada. È un attivista per i diritti LGBT+ che quando è stato scoperto dallo zio e dal padre è stato legato e poi è riuscito a fuggire. La situazione deve migliorare, e questo vale però anche per l’Italia.

Parliamo di lingua e di scrittura. Tu hai dovuto operare delle scelte linguistiche importanti, perché il tuo protagonista – e tu con lui – è diviso tra due lingue. Come sei riuscito a conciliare le due lingue?

Possiamo parlare di interlingua in questo caso. Nei dialoghi che vedono protagonista il padre emerge una lingua nuova, una lingua che mixa andriese, tunisino e italiano. Per scrivere quei dialoghi ho pensato alla sua voce, ho fatto riferimento alla mia memoria sonora. Per quanto riguarda, invece, la mia appartenenza linguistica, devo dire che Ahmed, come me, sin da piccolo cerca di parlare solo italiano ma al tempo stesso si impegna a studiare arabo. Con l’arabo ho fatto fatica, c’era quasi un rifiuto. Ho rifiutato la lingua araba, perché mi sentivo rifiutato dai miei compagni. Negli ultimi due/tre anni ho ripreso a studiarlo, ma per ho imparato solo le sure del Corano e qualche parolaccia.

La figura del padre nel romanzo è una figura controversa, contraddittoria. È un padre violento, ma anche benevolo. Non c’è mai giudizio né un risentimento reale del figlio nei confronti del padre. Cosa dovrebbe essere per te un padre?

Me lo sono chiesto a lungo, mi sono chiesto a lungo perché un padre arrivi a essere violento nei confronti dei figli e della moglie, ma non lo so. Un figlio non può essere un padre, non può capirne le responsabilità. Un bambino può arrabbiarsi con la madre che non gli compra il gelato, ma non sa che magari non ha i soldi per comprarglielo. È difficile. Io ho provato ad avvicinarmi in maniera empatica a mio padre.

Domanda di rito: quale libro consiglieresti di leggere dopo il tuo?

In tutto c’è stata bellezza di Manuel Vilas, che mi ha proprio accompagnato.

 

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