L’amore nun se frena, o Nina, amate, che a vole’ bene, no, nun è peccato
ROMA – Aperta alle ore 16 di martedì 6 aprile fino alle 18.30 di mercoledì, nella sala della Promoteca del Campidoglio a Roma, la camera ardente per Gabriella Ferri.
Nata a Roma nel 1942, Gabriella Ferri si è spenta lo scorso 3 aprile all’ospedale San Camillo, dopo essere caduta dalla finestra della propria abitazione di Corchiano, sui Monti Cimini, a Viterbo, da un’altezza di circa sette metri. L’allarme del vicino di casa, un primo soccorso dei medici dell’ambulanza del 118 e di quelli dell’ospedale di Civita Castellana, quindi il trasferimento in eliambulanza al San Camillo viste le gravi condizioni (un ematoma occipitale e fratture multiple agli arti e al bacino): suicidio. «La Ferri si è lanciata dalla finestra», questi i primi resoconti. La depressione, la partenza per l’America, l’esilio a Viterbo, la lunga assenza dalle scene, tutti elementi che avvalerebbero l’ipotesi. Ma la famiglia, in una nota diffusa nella serata di sabato, smentisce. Versione ufficiale, quindi: Gabriella Ferri è precipitata accidentalmente, forse colta da un malore legato ai farmaci antidepressivi di cui faceva uso. Dicono: «Non ha mai manifestato l’intenzione di compiere un gesto così cruento, né ha lasciato scritti da cui si potesse evincere la volontà di compiere un gesto estremo». E, del resto, lei stessa diceva: «Se qualcuno ti vuole portare al macello sii forte, ribellati, non fartici portare. Ribellati alla corda che ti trascina».
Comunque sia andata – incidente o suicidio – ha fatto il suo decisivo, grande ingresso a Roma, in elicottero, una grande (forse l’ultima vera) cantante romana, che a vederla (come ultimamente ci aveva lasciato fare con qualche apparizione televisiva) trasmetteva uno slancio verso il passato, incredibile dolcezza e la sensazione di essere ancora in altri tempi, quelli nei quali lei cantava stornelli romaneschi.
Non a caso, infatti, dopo aver venduto un milione e 700 mila copie di La società dei magnaccioni, la Ferri si confermava come la grande e scanzonata voce romana del suo e di tutti i tempi con successi come Dove sta Zazà, Una gita a li Castelli, Tanto pe’ canta’, Ciccio formaggio, Lassatece passa’, Rosamunda, Tutti al mare. Proprio lei che aveva cominciato all’Intras Club di Milano, diveniva il simbolo di Roma. Dal Bagaglino romano, che l’aveva ospitata sin dagli inizi della carriera, partiva una voce calda e allo stesso tempo rauca, precisa ma scanzonata, che un po’ si trascinava (e strascicava), televisiva ma, soprattutto, teatrale. Perché Gabriella Ferri era, prima di ogni cosa, una vera interprete, una dominatrice della scena: anche protagonista dei primi grandi varietà televisivi (Senza rete o Dove sta Zazà, Mazzabubù, Giochiamo al varietà, oltre ad un’apparizione al Festival di Sanremo del 1969 nel quale cantava Il sole è di tutti in coppia con Steve Wonder), sino al recente Biberon, la cantante aveva abbandonato la televisione e il cabaret e si era trasferita negli Stati Uniti per dedicarsi alla musica, prima di tornare e farsi sporadicamente vedere sui teleschermi (tra gli altri, in Buona domenica, Sembra ieri, Novecento, Trash – Non si butta via niente).
Non solo musica romana, ma anche musica napoletana, d’autore, musica americana, musica latina per la Ferri, confermatasi e riconfermatasi interprete d’eccezione di canzoni che, in mano sua, divenivano rappresentazioni.
Per una donna che non si rispecchiava più, ormai, nei nuovi modi d’essere della televisione e della musica italiana, era difficile tornare (salvo brevi collaborazioni con la Piccola Orchestra degli Avion Travel e recenti dischi, Ritorno al futuro e Canti DiVersi): ma lo aveva annunciato, destando impazienza nei nostalgici. E, in effetti, a Roma, è tornata, e la promessa l’ha mantenuta a modo suo.
Una canzone cantò a una donna, Nina si voi dormite. Lo aveva detto proprio lì, qualcosa che non va dimenticato: «L’amore nun se frena, o Nina, amate, che a vole’ bene, no, nun è peccato». La ricordiamo con il testo di quel brano.
pare che nun esisteno dolori.
Un venticello come ‘na carezza
smove le piante e fa’ bacià li fiori.
Nina, si voi dormite,
sognate che ve bacio,
ch’io v’addorcisco er sogno
cantanno adacio, adacio.
L’odore de li fiori che se confonne,
cor canto mio se sperde fra le fronne.
Chissà che ber sorriso appassionato,
state facenno mo’ ch’ariposate.
Chissà, luccica mia, che v’insognate?
Forse, che canta che v’ha innamorato.
Nina, si voi dormite,
sognate che ve bacio,
ch’io v’addorcisco er sogno
cantanno adacio, adacio.
L’odore de li fiori che se confonne,
cor canto mio se sperde fra le fronne.
Però, si co’ ‘sto canto, io v’ho svejato,
m’aricommanno che me perdonate.
L’amore nun se frena, o Nina, amate,
che a vole’ bene, no, nun è peccato.
Nina, si voi dormite,
sognate che ve bacio,
ch’io v’addorcisco er sogno
cantanno adacio, adacio.
L’odore de li fiori che se confonne,
cor canto mio se sperde fra le fronne.
di Romina Reale
© Riproduzione Riservata