Si lisciava sempre i capelli, osservava con sguardo spento e rassegnato il suo amore Williams, accettava con compassione la moglie ninfomane che se la faceva col colonnello (Liz Taylor).
Vogliamo ricordare così Marlon Brando, nella sua composta interpretazione del maggiore gay Weldon Penderton in ‘Riflessi in un occhio d’oro‘ di John Huston. Una delle massime leggende del cinema mondiale si è spenta a Los Angeles il primo luglio alle 18.20 ora locale a 80 anni. L’ospedale dove era stato ricoverato, il Medical Center dell’University of California, ha rivelato solo ieri che il divo è morto per un enfisema polmonare. Il suo avvocato David J. Seeley ha dichiarato che i funerali si terranno in forma privata. Bush ha dichiarato che “con la scomparsa di Marlon Brando l’America perde un grande attore di teatro e di cinema”.
‘Riflessi in un occhio d’oro’ è l’unico film gay girato da Brando. Implosivo, trattenuto, voyeurista, troppo pudico nel parlare di omosessualità e onestamente sopravvalutato dai decani della critica (la descrizione dell’ambiente da caserma è quanto mai stereotipata e Penderton che si invaghisce del ragazzo che va nudo a cavallo fa sorridere), quest’opera di Huston è da ricordare principalmente per l’interpretazione misurata di Brando, una delle più particolari della sua carriera.
Nato a Omaha (Nebraska) il 3 aprile 1924, studente di Stella Adler all’Actor’s Studio e tra i primi ad applicare il metodo Stanislavski, Marlon Brando rivoluzionò i metodi di recitazione in tre ruoli chiave: l’animalesco e indimenticabile Stanley Kowalski, personaggio da brivido per attori e spettatori nel magistrale ‘Un tram che si chiama desiderio‘ (1951) di Elia Kazan; l’anti-eroe Terry Malloy, pugile fallito nel celeberrimo ‘Fronte del porto‘, sempre di Kazan, che gli fece vincere il primo Oscar (il secondo arrivò con l’inimitabile Don Vito Corleone de ‘Il padrino‘ nel 1972); lo smanioso e irrefrenabile teppista dei Black Rebels in giubbotto nero ne ‘Il selvaggio‘ (1954) di Laszlo Benedek.
Icona di un machismo diretto e sfrontato, simbolo della ribellione motorizzata, creò un nuovo tipo di divismo grazie alla sua vita anticonformista e colma di tragedie (il suicidio della figlia venticinquenne Cheyenne, i dieci anni di prigione del figlio Christian accusato dell’omicidio del fidanzato di quest’ultima, i tracolli finanziari dovuti a controversie legali sul suo patrimonio). Da Olimpo della Settima Arte le sue interpretazioni nel capolavoro di Bertolucci ‘Ultimo tango a Parigi‘ (in cui perde i pantaloni ballando con Maria Schneider) e l’enigmatico colonnello calvo Walter E. Kurtz nell’ineffabile Palma d’Oro ‘Apocalypse Now‘. Disse che “recitare è una professione vuota e inutile”. Il regista Kazan sosteneva che Brando “era pieno di profonde ostilità e sentimenti di distruzione”. L’ultimo suo film, incompleto, è ‘Brando e Brando‘ del regista franco-tunisino Ridha Behi che ha dichiarato: “lo finirò in suo onore”.
Massimo Consoli, padre del movimento omosessuale italiano, lo ricorda come «uno di quei meravigliosi eterosessuali senza paura. Anzi, era un eteropartecipe che, un bel giorno, a domanda rispose: “Anch’io, come tanti altri uomini, ho avuto esperienze omosessuali. E non me ne vergogno”».
Se ne va un gigante.