Angelo Molica Franco è un giornalista e traduttore letterario, che collabora alle pagine culturali del Venerdì di Repubblica, il Fatto Quotidiano e Vogue, oltre ad aver scritto il romanzo A Parigi con Colette. Oggi Angelo ha scritto di proprio pugno tra le pagine dell’edizione romana di LaRepubblica quanto capitogli domenica scorsa, nel cuore della Capitale. Semplicemente a passeggio con il suo fidanzato, all’ora dell’imbrunire, Angelo ha ‘osato’ prendere la mano dell’amato. La naturalezza che da millenni caratterizza un qualsiasi rapporto di coppia, se non fosse che se a farlo sono due uomini o due donne spesso, troppo spesso, piovono insulti, se non addirittura pugni e calci.
“Io sorridevo e, sotto la mascherina, sorrideva anche Carlo. Lo dicevano gli occhi”, scrive Angelo, che mai avrebbe potuto immaginare “la sfida che per gli altri era quella nostra gioia piccola”.
Il primo segnale è stato un fischio alle nostre spalle. Non ci siamo girati: sapevamo che era per noi, che un po’ eroi e un po’ incoscienti abbiamo proseguito quella marcia civile mano nella mano. Dopo una decina di minuti, ad un attraversamento pedonale all’altezza di via Merulana, da un’auto di fronte a noi si sporge un ragazzo, avrà avuto vent’ anni, e grida: “A’ froci”. Eccola: la parola è arrivata. Io non me l’aspetto mai, ma lei mi raggiunge sempre.
Lo scrittore ricorda il primo frocio arrivatogli in faccia, come un ceffone ben assestato, all’età di 8 anni. “Lo avevano scritto sul muro della scuola alcuni miei compagni: “Angelo frocio”. Non sapevo ancora cosa significasse, ma capii subito si trattava di una cosa sporca vista la rabbia di mia madre e la fretta con cui scese dalla macchina per mettersi a pulire la scritta insieme ai bidelli. Ogni volta che qualcuno mi dà del frocio rivedo lei, mia madre, con la spugna nelle mani a sbucciarsi le nocche delle dita contro il cemento della mia scuola in Sicilia”.
“Da bambino ero troppo sensibile, troppo femminile, troppo bizzarro, troppo introverso”, continua Angelo. “Ho sperimentato presto lo sguardo degli altri posarsi interrogativo su di me. È da più di trent’ anni che la parola frocio infesta le mie giornate e mi ricorda che sono sempre troppo qualcosa. Come una pistola carica che non smette di avermi sotto tiro, quella parola è probabilmente la costante della mia vita, e della vita degli omosessuali in Italia: sempre nel mirino di chi pensa di doverli colpire, disprezzare, aggredire, di chi crede di avere il sacrosanto diritto di punire una colpa”.
Una sensazione purtroppo condivisa da tante, tantissime persone LGBT d’Italia. Poi è arrivata quella maledetta domenica, che ha colpito come un treno Angelo e il suo compagno. Perché dopo “froci” è arrivato anche “il “ricchioni schifosi”, e poi il “morite finocchi” fino a una bottiglietta di plastica lanciata (per fortuna vuota, ma sempre alle nostre spalle). Eppure non ci siamo mai lasciati la mano, io e Carlo. Io non voglio pulire, come mia madre, l’offesa ricevuta. Non voglio sentirmi in colpa per essere una delle migliaia di vittime dell’omofobia che è – che sia chiaro una volta per tutte – una violenza. Una violenza declinabile in varie possibilità, ognuna sbagliata, e che qualcuno crede di poter incarnare in base a secolari principi di superiorità”.
Nei giorni in cui alla Camera si dibatte sulla legge contro l’omotransfobia, quanto accaduto ad Angelo ribadisce l’urgenza di un intervento immediato da parte delle istituzioni. “E che sia chiaro“, conclude il giornalista. “Chiunque si dice contrario sta difendendo il diritto di usare quella violenza, e rivendica la legittimità di quel dolore inflitto. Un dolore che è come una crepa tra la pancia e il cuore“.
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