“La cancel culture ci sta sfuggendo di mano?”.
Negli ultimi anni, questa domanda è diventata impossibile da ignorare. Una veloce ricerca su Google darà accesso a centinaia di risultati, e molti di essi diranno che sì – la massa del politicamente corretto ha preso il potere, e non si può più dire niente né scherzare su niente.
Prima di stabilire però – attraverso razionalità e fatti – se il fenomeno della cancel culture esiste davvero, dobbiamo prima capire di cosa si tratta.
La definizione di cancel culture per come ne si parla
L’idea è – secondo coloro che ne promuovono l’esistenza – che le persone possano in ogni momento perdere la loro intera piattaforma pubblica e la loro credibilità nel momento in cui sostengano un’opinione diversa dal “politicamente corretto”.
Che si tratti di un Tweet, una dichiarazione in un’intervista o un editoriale, fine dei giochi: verrai sommerso da una marea di critiche, verrai privato della possibilità di spiegarti e non ci sarà più niente da fare.
Il problema alla radice di questa prospettiva è semplicemente che la scellerata cancel culture non esiste, o almeno, non esiste nel modo in cui viene definita. Si tratta solo di un passpartout utilizzato da coloro che oggi devono affrontare in maniera seria le conseguenze delle proprie azioni e delle proprie dichiarazioni, cosa che non hanno probabilmente mai dovuto fare prima.
Per una persona appartenente alle minoranze, esprimere sé stessi in maniera libera e autodeterminarsi è una sensazione nuova e positiva. Questo perché comportamenti bigotti, sessisti e razzisti non vengono più insabbiati come prima. Il che si applica sia per le persone in posizione di potere economico o politico, ma anche per chiunque abbia goduto fin’oggi di privilegi che mai si sarebbe sognato di dover tenere in considerazione.
La conseguenza è che il prendersi le proprie responsabilità si traduce automaticamente in una cosa negativa, da delegittimizzare parlando proprio di cancel culture.
Prendiamo l’esempio più noto in questo ambito: fin dagli albori del movimento #MeToo, sempre più donne hanno sentito finalmente di poter parlare delle violenze subite senza vergogna.
Se in molti hanno sostenuto la causa, si è anche assistito a una frangia di persone che ne hanno criticato il presupposto estremismo, sostenendo che oggi un uomo “dovrebbe esimersi dal fare un complimento a una donna per paura di essere attaccato dalla massa del politicamente corretto”.
Ma non è questo l’obiettivo del movimento. Sebbene oggi tantissimi uomini – ma anche donne – siano stati additati e giudicati per i loro comportamenti, è raro che essi abbiano subito gli effetti della cancel culture per come viene descritta.
La cancel culture è causata dagli stessi che se ne lamentano
Un esempio lampante è proprio, Harvey Weinstein – accusato da più di 80 donne di molestie sessuali e stupro, e giudicato colpevole. Sì, il noto produttore cinematografico ha perso molta rilevanza da questi episodi, ma si è comunque presentato a un evento pubblico lo scorso ottobre.
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Quindi, parlare di eliminazione totale di un personaggio dalla sfera pubblica è esagerato e inesatto.
Sebbene il termine “cancel culture” stia spopolando in Italia solo recentemente, l’idea aleggia proprio a partire dal movimento #MeToo.
A oggi però il significato è sempre più esteso a diversi ambiti, ma parte sempre dal presupposto che si tratti di un ostracismo definitivo e incancellabile sulla reputazione di qualcuno che ha “solo commesso un errore”.
Il che è solo uno spauracchio utilizzato dai più per parlare di un atteggiamento che chiede solo alle persone di prendersi la responsabilità delle proprie opinioni dannose nei confronti delle minoranze, o di comportamenti scorretti in generale.
La cancel culture non esiste per il semplice fatto che chiunque ha la possibilità di redimersi, ma nessuno tenta di farlo con intenzione.
Il “perdono” da parte del pubblico può essere preteso solo se in cambio vi è una genuina voglia di fare meglio, cosa che – nella maggior parte dei casi – richiede un cambiamento radicale da parte di chi è stato accusato.
E i fatti di dicono che molto spesso, questo cambiamento non avviene. Quindi, chi è causa del suo mal pianga sé stesso.
Ma non solo: l’idea che esista una cancel culture è solo un altro termine per screditare la reputazione dei movimenti per i diritti delle minoranze, perché così conviene a coloro che non vogliono perdere il loro privilegio.
Oggi il termine viene utilizzato in così tanti contesti che dà luogo a una iper semplificazione, perdendo di senso, e precludendo una discussione davvero fruttuosa sulle questioni che coinvolge. Il che è esattamente l’obiettivo: invece di comprendere e ragionare sul danno commesso, si etichetta una richiesta di responsabilizzazione come un attacco.
Invece di creare panico, e parlare di silenziamento della libertà di espressione, magari sarebbe il caso di cominciare davvero a pensare alle conseguenze di certe narrative d’odio, e del perché nel 2022 esse non vengano più tollerate.
Immagine di copertina: edit da una foto di Clay Banks
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