Non era mai successo che una mobilitazione nata nel mondo del cinema pervadesse tutti gli ambiti della società come con il neofemminismo nato da #metoo.
Due film che potete trovare in sala in questi giorni, molto diversi tra loro, riflettono sull’evoluzione di questa consapevolezza nel corso del tempo: nel formalista Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson, ambientato negli anni Cinquanta, in una Londra in pieno fermento post-bellico, il rinomato sarto Reynolds Woodcock insieme all’inseparabile sorella Cyril sono le punte di diamante della moda britannica, vestono l’alta società: aristocratiche, stelle del cinema, persino la famiglia reale.
Reynolds è costantemente circondato da donne-modelle che affollano la sua splendida casa-atelier vittoriana ma quando conosce la timida cameriera Alma se ne innamora e la trasforma nell’ennesima femmina porta-abiti della sua vita costruita ‘su misura’. Alma è la figura standardizzata della donna sottomessa a un marito dominante, non ha alcuna autonomia reale, la sua personalità svanisce come ombra del suo uomo di fama. Anche Cyril, spalla destra del fratello, personaggio simile alla governante dell’hitchcockiano ‘Rebecca, la prima moglie’, non sembra avere una vita propria, tantomeno sentimentale, se non come socia tuttofare del fratello, costantemente assorbita dagli impegni glam della maison. Donne-grucce al servizio dell’uomo.
Il film è fatto molto bene ma è lento, impegnativo, con punte di ripetitiva stucchevolezza nella successione ritualistica delle creazioni di Reynolds, interpretato da un sublime Daniel Day Lewis, a suo dire all’ultima interpretazione cinematografica (ma lo disse anche quando si trasferì a Firenze, anni fa, per fare il calzolaio nella bottega Bemer). Bravissima anche l’inglese Lesley Manville nel ruolo di Cyril, alla sua prima nomination all’Oscar, una delle sei collezionate da Il filo nascosto.
Praticamente una rivelazione la lussemburghese Vicky Krieps nei panni di Alma. Eppure Il filo nascosto prende a un certo punto una discutibile piega da film gotico, quando Alma si rende conto che il suo unico potere in casa è quello di cucinare per Reynolds – la donna nel Novecento è sempre ai fornelli – e lo usa per decidere del suo futuro neanche fossimo ne L’inganno della Coppola.
Speculare è l’immagine della donna di oggi nella commedia sarcastica in bianco e nero The Party di Sally Potter, un’autrice un po’ dimenticata che ebbe la sua fortuna negli anni Novanta con Orlando che lanciò Tilda Swinton.
Qui la protagonista è una donna di potere, decisionista, autonoma: Kristin Scott Thomas è Janet, appena eletta Ministro della Salute del governo ombra britannico, desiderosa di festeggiare coi migliori amici e suo marito nella sua casa con giardino. Ma la situazione precipiterà nel peggiore modi rivelando invidie, rancori, segreti scioccanti.
La coppia più positiva e l’unica proiettata in un’idea di futuro costruttivo è costituita da una coppia lesbica composta dalla butch Martha (Cherry Jones) e dalla compagna Jinny (Emily Mortimer), la quale aspetta non uno ma ben tre figli anche se una crisi di gelosia rischia di mettere a rischio la relazione.
Qui è la donna a gestire il gioco, gli uomini sono anziani sofferenti come Bill, lo svanito consorte di Janet, interpretato da Timothy Spall, pazzi cocainomani (Cillian Murphy) o ridicoli guru new age (Bruno Ganz). E la donna ritrova così la libertà di gestire i suoi spazi, il suo diritto di uguaglianza sociale e di gestire i suoi amori che spesso non hanno nemmeno bisogno del maschio.
Il tono è da black comedy ad effetto, sovente si riduce a una successione di trovate anche un po’ semplicistiche, la sceneggiatura è un po’ esile e la durata fin troppo ridotta (71 minuti, molto stringati). Eppure The Party rende bene quanto finalmente la donna stia giustamente rivendicando rispetto e dignità anche se il rischio potrebbe essere quello di una decisiva frattura antropologica col maschio etero: se una delle soluzioni fosse la rassicurante tranquillità al femminile dell’amore omosessuale?
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