La famiglia è queer al Torino Film Festival

La 27esima edizione, diretta dal grande Gianni Amelio, è abbastanza gay: un ragazzo omo aiuta l'amica tossica incinta nel diseguale "Le refuge" di Ozon e artisti queer compaiono nel notevole "Bronson"

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“Sono uno dei cani più totali, rispetto a Moretti, se mi metto davanti alla macchina da presa”. Così il pansessuale Gianni Amelio, ottimo regista di “Il ladro di bambini” e “Così ridevano”, ha presentato il 27esimo Torino Film Festival di cui ha ereditato la presidenza proprio dal grande Nanni. “Moretti è un po’ intransigente” aggiunge Amelio. “Ma devo dire che ha conosciuto il festival grazie a me, gli ho fatto conoscere io lo staff, e non il contrario. Lui resta comunque un uomo di cinema a tutto tondo”. Il figlio adottivo di Amelio, l’albanese Luan, non si è ancora notato in giro ma il papà, quando parla di lui, si illumina davvero amorevolmente.

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Un festival abbastanza attento alle tematiche glbt, il nuovo TFF, anche se meno dell’anno scorso, incentrato soprattutto sul tema della famiglia e dell’arte musicale (ha inaugurato il deboluccio “Nowhere Boy” sull’infanzia di John Lennon firmato da Sam Taylor Wood che molti si aspettavano maschio, invece è una donna).
Abbiamo visto in anteprima italiana il nuovo film del talentuoso François Ozon, “Le refuge”, dramma bifronte e diseguale su una tossicodipendente, Mousse (Isabelle Carré) che aspetta un bambino dal bellissimo Louis (Melvil Poupaud) il quale muore però d’overdose. Lei decide di portare avanti la gravidanza con l’aiuto dell’amico gay Paul (Louis Ronan-Choisy), fratello di Louis.

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Film doppio non banale sulla nuova ossessione di Ozon, la maternità/paternità, come in “Ricky”, ha cose molto belle (Isabelle Carré, davvero incinta al tempo delle riprese, non sbaglia un’inquadratura ed è assai espressiva) e molto leziose (il personaggio del gay, bello, perfettino, con segreto da oratorio che vorrebbe essere uno scoop, sta col bruttone perché è tanto sensibile), sorprende per l’attacco magistrale e un finale da dibattito. Svela però tutti i difetti del cinema di Ozon, uno degli autori gay più prolifici del mondo, sentimentale ma impaurito nel mostrarlo, troppo attaccato ai personaggi, capace di essere anche snob – vedi 5×2 e metà di questo film – ma centra il meglio del suo lavoro grazie allo sguardo amorevole e con echi di eternità in stile “Sotto la sabbia” col quale riprende Mousse, irresponsabile attaccata alla vita fino all’ultimo respiro, autentica, credibile, incazzata con la vita.

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Ozon ci sa indubbiamente fare con la macchina da presa – meno come sceneggiatore – cogliendo i colori, i sapori, lo spirito della Francia atlantica dove lei scappa in pausa di riflessione ma frana paurosamente nelle scene di sesso (per carità: l’ormonato riccastro che vuole farsi la donna incinta e il gay che va a letto con lei. Basta!). Ozon ha conosciuto il protagonista a un concerto, fa il musicista e ci propina la stessa canzone per tutto il film. Ovviamente è strafico.
Meglio il grottesco ruvido e diretto della follia danese “Bronson” di Nicolas Winding Refn, storia vera del più pericoloso criminale britannico, Michael Peterson (Tom Hardy, bravissimo e seducente), un povero pazzo muscoloso, bello, pelato, faccia da schiaffi, masochista – gli piace essere menato a sangue – che si crede Charles Bronson, ‘il giustiziere della notte’, rinchiuso per decenni in prigione perché “crede di essere in un albergo” (è tuttora carcerato e ha 56 anni).

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Ha anche un amico omosessuale che gli insegna come diventare una celebrità – il suo grande sogno – combattendo con altri maschi nerboruti e persino cani, ma quando un altro gay gli insegna che cos’è l’arte lui gli fa fare una triste fine da statua vivente dipingendogli il corpo alla Gilbert & George ma non potete immaginare il livello di perversione. Ultraviolento, estremo, lucido come un Kubrick survoltato e delirante, fa rabbrividire nella scena al manicomio coi pazzi che sembrano davvero pazzi (fra loro c’è pure un coprofilo) mentre inquieta nella scenetta teatrale in cui si traveste da joker gender e parla con voce da donna ma anche da uomo, truccato per metà da lui e per metà da lei. Scommettiamo che non verrà mai distribuito in Italia. ‘Sto danese è da tenere d’occhio ma dice di aver fatto due figli e quasi rinnega il simpatico e delirante “Bronson”.

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Dovrebbe invece esserne orgoglioso. Applausi e urla liberatorie di maschi, etero e gay, mentre le donne commentavano disgustate e un po’ intrigate dal nudo maschile, dalle lotte sudate tra uomini veri, per un film selvaggio e magnifico, studiatissimo, in cui le femmine – ahimé – sono tutte puttanelle ammazzate nei modi peggiori e umilianti o madri castranti e irresponsabili. L’ultimo film di Refn (si legge “Rifen”) si chiama “Walhalla Rising” e parla di vichinghi norvegesi che si stuprano persino nel fango: è sì tarantiniano ma coi tempi morti di uno Sharunas Bartas – autore lituano da evitare come la morte – e, a patto che non vi piacciano i combattimenti tra fustaccioni sanguinolenti in paesaggi desolati, il consiglio è uno solo: lasciate perdere.

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