Tra il 1943 e il 1945 più di 35mila donne parteciparono alla Resistenza: madri, staffette, combattenti che hanno incontrato torture, arresti, stupri, e morte pur di liberare l’Italia dal nazifascismo. Eppure quando si racconta il 25 Aprile, queste donne restano ancora ai margini: delle co-protagoniste, vittime delle circostanze, delle creature materne pronte a fasciare le ferite dei maschi, ma mai parte attiva. Una narrazione vecchia e stantia, abituata ad una lente esclusivamente maschile, perché le donne partigiane furono molto più che un semplice aiuto.
Nel 1965, Lilliana Cavani fu una delle prime a riportare l’attenzione alla controparte femminile, con il documentario “Le donne nella resistenza”, una preziosa rassegna di testimonianze, resoconti, memorie, di donne che erano lì in carne e d’ossa, pronte a riscrivere la storia da capo. Donne di ogni estrazione sociale, con diversi background, che cominciarono a prendere il controllo, a combattere per dimostrare con i fatti la validità delle idee. Nel documentario di Cavani si parla di oltre 500 donnea cui sono stati affidati compiti di comando militare: “Quando arrivai a Porta Lame con la mia arma automatica e bombe a mano, lanciai il fuoco, i miei compagni mi seguirono e ci fu un grande combattimento, ci furono perdite da parte nostra e perdite da parte dei tedeschi” racconta Germana Boldrini, che a diciassette anni, diede il segnale dell’attacco partigiano a Porta Lame. “Io essendo la più grande (della famiglia) mi sono messa nel sangue quel certo spirito di coraggio“. Ma anche Norma Barbolini, che nel 1944 a ventiquattro anni, comandante dei partigiani durante il violentissimo scontro di Ceresologno nel Modenese: “Poiché di persone in grado di prendere decisioni in quel momento non ne vedo, decisi di prendere quelle decisioni che ritenevo più opportune, e di conseguenza siamo riusciti a portare a termine la battaglia con un enorme successo” racconta Barbolini.
Adrianna Locatelli guidò un gruppo di militari in azioni partigiane, dopo averli accolti presso la sua abitazione di Bergamo, fino all’insurrezione dei tedeschi: “Ho avuto battuti fuori tutti i denti” racconta Locatelli “alle gambe mi hanno messo gli aghi roventi, e questo è continuato per otto giorni. Senza mai parlare pur di salvare i miei compagni“. Marisa Ombra, antifascista piemontese che l’8 Settembre 1943 fu parte delle Brigate partigiane garibaldine, racconta che dormivano nelle stalle, e insieme agli uomini, condividevano freddo, fame, nascondigli, e paure. Le donne staffette, considerate per una vita “esseri inferiori”, avevano allenato l’arte di mimetizzarsi e adattarsi ai contesti più indicibili. Fondamentali furono anche le cosiddette “donne della montagna” che accoglievano feriti e brigate, fornivano indumenti caldi, preparavano cibo e confezionavano provviste per i combattenti, avvisavano i soldati dei rastrellamenti mettendoli in salvo: “Indiscutibilmente non avremmo potuto far niente senza le donne montanare” racconta Barbolini “Erano sempre disposte a dividere il pane, il loro letto, quando avevamo dei feriti ci aiutavamo, sono state un appoggio indispensabile”.
Le partigiane contrastarono l’occupazione tedesca fondando vere e proprie organizzazioni ufficiali, come il GDD (Gruppo di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti per la libertà) o i Gruppi di Azione Patriottica (GAP), vere e proprie associazioni femminili italiane, che come riporta il sito dell’Anpi Lombardia “erano aperti a tutte le donne di ogni ceto sociale e di ogni fede politica e religiosa, che vogliano partecipare all’opera di liberazione della patria e lottare per la propria emancipazione”. Donne giovanissime, mosse dal desiderio di riaffermarsi e rivendicare un mondo diverso, che disobbedivano radicalmente a quello schema precostituito che le voleva relegate tra le mura domestiche, e diventavano protagoniste, insieme agli uomini, della lotta partigiana.
Scrisse la storica Michela Ponzani sul Fatto Quotidiano: “La lotta partigiana delle donne è anche una scelta di libertà. Una guerra privata, combattuta per l’emancipazione dalle discriminazioni e da ogni forma di subalternità sociale e culturale [..] uno strappo definitivo con la società patriarcale, la liberazione dall’educazione fascista improntata al rispetto delle gerarchie fuori e dentro le mura domestiche, che le condanna a essere la “pietra fondamentale della casa, la sposa e la madre esemplare“.
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