Paolo Camilli: “La mia omosessualità? L’ho negata fino alla morte con me stesso” – intervista

Il giudice di "Drag Race Italia" torna a teatro con lo show "Sconfort Zone" e noi abbiamo fatto una lunga chiacchierata con lui.

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Paolo Camilli
Paolo Camilli - Foto: Cosimo Buccolieri / Stylist: Ylenia Puglia / Mua: Arianna Lorenzato
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Quante volte avete scelto di restare nella vostra (s)confort zone piuttosto che buttarvi a capofitto su nuove esperienze che, come tali, vi intimorivano e vi facevano tremare il pavimento sotto ai piedi?

Rispondiamo noi: tantissime, forse troppe, volte. Ne siamo certi. Capita a tuttə, anche a me che scrivo e a colui che oggi ha deciso di aprire le porte di casa sua e di raccontarsi a cuore aperto, nelle righe che seguono.

Ovviamente, come avrete intuito dal titolo, stiamo parlando dell’istrionico Paolo Camilli che, reduce dal grande successo nelle vesti di giudice nell’ultima edizione di Drag Race Italia, recentemente è tornato a teatro con il suo nuovo spettacolo Sconfort Zone – Il paradiso delle irrelazioni regalandoci un’immagine inedita di sé.

Per l’occasione, infatti, oltre a sfoderare alcuni dei suoi più celebri personaggi – tra cui una fantasmagorica Ilary Blasi -, Paolo ci conduce in un lungo e tortuoso viaggio che fa tappa in alcuni momenti della sua vita personale: si va dalla sua infanzia a pane e Dawson’s Creek alla sua vocazione per la recitazione, passando per il duro percorso di accettazione, per arrivare al palco che da sempre è l’unico luogo che lo fa sentire a casa.

Insomma, un viaggio ricco di emozioni che ci aiuta a rivedere la nostra idea di confort zone, spronandoci a non aver paura di tastare l’ignoto per raggiungere la nostra felicità; un po’ come, ora, ha imparato a fare lui.

Buona lettura!

Leggi l’intervista a Paolo Camilli subito dopo la foto…

Paolo Camilli
Paolo Camilli – Foto: Cosimo Buccolieri / Stylist: Ylenia Puglia / Mua: Arianna Lorenzato

Paolo Camilli, dall’infanzia alla sua passione per il teatro

Reduce dal successo di Drag Race Italia, come stai vivendo questo momento così speciale?

Devo dire particolarmente bene. “Drag Race Italia” è stata un’esperienza davvero entusiasmante perché per la prima volta mi sono ritrovato a portare me stesso in un contesto televisivo, senza maschere. Sono sempre stato me stesso – nel bene e nel male – e per la prima volta sono stato io a dover dare giudizi, scatenando talvolta anche qualche vespaio e creando qualche piccolo drama con alcune fanbase. Ma fa parte del gioco. Mi è piaciuto giudicare e allo stesso tempo essere giudicato. Temo però che, se dovesse esserci una nuova occasione, potrei essere ancora più stronzo. Potrei diventare un po’ come la Celentano (ride, ndr.).

 

Da piccolo ti saresti immaginato aspettato tutto questo?

In realtà, da piccolo non pensavo al futuro. Ero un bambino che pensava al presente, al qui ed ora. Anzi, quando mi veniva chiesto: “Cosa vuoi fare da grande?” andavo in crisi e pensavo: “Che cacchio ne so io adesso?”. E quindi mi ricordo che, spinto dalle domande altrui, cercavo di immaginarmi nella vita adulta e mi vedevo in contesti d’ufficio, con grandi tabelloni e vetrate. Tipo lavorare in borsa. Poi, grazie ad alcune maestre, ho avuto la fortuna di immergermi nel magico mondo del teatro, e lì è cambiato tutto.

 

Quanto ha influito il teatro nella tua crescita personale?

Parecchio. Da piccolo ero molto timido, abbastanza introverso e chiuso in me stesso. Quando andavo a teatro, invece, mi sentivo più spavaldo e sicuro di me. Il palco era il luogo nel quale mi sentivo meglio. Era lì, nonostante fossi super ipercritico – e questa cosa non è cambiata per nulla nemmeno oggi -, che mi sentivo a mio agio, più confident in quello che facevo. E mi dicevo: “Sono proprio bravo. Questo sì che lo so fa’”.

 

C’è un’immagine in particolare che ti viene in mente di quel periodo?

Sì, mi ricordo diverse recite ma ciò che mi è rimasto più impresso nella mente è sicuramente lo stupore dei miei genitori che erano abituati a vedermi tutto timido, silenzioso, taciturno che sul palco mi trasformavo in uno showman, anzi forse dovrei dire in uno showchildren (ride, ndr.). E questo un po’ mi stupiva perché dicevo: “Ammazza, vedi, si accorgono di me in questo modo”. Quindi forse il palco era il contesto nel quale per la prima volta mi vedevo “visto” veramente per quello che ero.

 

Che bambino sei stato?

Ero un bambino timido, introverso, però anche molto giocherellone.

Ad un certo punto, però, ho intuito che non avevo gli strumenti per spiegare certi miei atteggiamenti o pensieri. Mi ricordo, ad esempio, che c’è stato un momento nel quale ho capito che giocare con le bambole o fare qualcosa che non fosse etichettato come “da maschio” poteva crearmi dei problemi. Così, pian piano, mi sono ritrovato a controllare il mio comportamento, a stare sempre in uno stato di allerta, trasformandomi di fatto in un piccolo Ken. Nessun vedeva mai il vero me; tutti conoscevano soltanto la versione che mi era richiesta. A parte quando salivo sul palco. Lì mi lasciavo andare, mi divertivo e mi sentivo apprezzato per ciò che ero e per quello che sapevo fare. Questo mi faceva stare bene e pensare: “Non sono solo sbagliato”. È stato un vero toccasana.

Paolo Camilli
Paolo Camilli – Foto: Instagram @paolocamilli / ph. @ema210m

Paolo Camilli, il difficile percorso di accettazione: “Sì, sono gay”

Nella nostra scorsa intervista hai detto: “Da bambino giocando superavo inconsapevolmente i limiti che trovavo intorno a me. Me ne fregavo completamente dei paletti tra cose da femmina e cose da maschio e creavo un momento di estremo potere”. Forse è anche per questo che adesso fai tutte queste imitazioni, questi travestimenti. È un qualcosa che un po’ ti sei riportato dall’infanzia all’età adulta…

Sicuramente, forse è sempre stato un po’ il mio linguaggio. Mi ha sempre divertito impersonificare qualcuno, creare nuovi personaggi.

Sono stato un bambino molto solo, nel senso che sono l’ultimogenito. Tutti erano più grandi di me, anche le mie cugine. C’era solo un mio vicino di casa (mio coetaneo). Questo, sicuramente, mi ha permesso di sviluppare questo mio lato creativo, portandomi ad inventare nuovi giochi e a imitare sia personaggi maschili sia femminili. Dal lato mio non c’era giudizio, come è giusto che sia, anzi era il mondo esterno che portava del giudizio, quindi dicevo: “Perché che sto a sbaglià? Che sto a fa’? Me sto a  divertì, ma che volete?”.

 

E adesso quei paletti allora come li superi? Se ci sono ancora dei paletti…

No, ormai quei paletti non ci sono più. Sicuramente ci può essere ancora qualche riverbero del mio confrontarmi con il giudizio in generale. Però, anche in questo Drag Race Italia è stata un’ottima palestra perché mi ha permesso di affrontare il tutto con il giusto distacco e di contestualizzare la situazione e i commenti che ricevevo quando i miei giudizi non trovavano il benestare del pubblico. Si trattava pur sempre di un gioco, e come tale l’ho vissuto.

 

Ad un certo punto della tua vita hai realizzato di essere attratto dagli uomini: che rapporto hai avuto con la tua sessualità? Come hai affrontato quel momento?

L’ho negato fino alla morte con me stesso.

Ricordo ancora, e se ci penso mi faccio grande tenerezza, che un pomeriggio stavo guardando Dawson’s Creek alla tv. Ad un certo punto Jack si rende conto di provare dei sentimenti per un ragazzo e dunque diventa consapevole della propria sessualità. Ricordo che in quel momento, quel pomeriggio, io sono andato totalmente in crisi, tant’è che ho provato a tranquillizzarmi dicendo: “Paolo però, vedi ti piaceva quella tua amichetta, quindi no, no, no, non può succedere anche te. No, no, no, no”.

Devo ammettere che sono stato molto “controllante” con me stesso. Durante la mia adolescenza dall’esterno potevo sembrare molto sereno, e a volte magari lo ero, però internamente avevo parecchi tormenti.

 

Cosa provavi in quei momenti?

Mi ricordo che mi sentivo l’unico, non avevo riferimenti esterni. Pensavo: “Oddio, sono solo io! Sarò così? Quindi se me sgamano è un problema, vengo fatto fuori, che succede?”, il panico. Invece adesso c’è la fortuna, anche grazie ai social, che ci sia molta più conoscenza e apertura.

 

Che cosa ti porti dietro dal tuo esser bambino?

Allora… Tanta roba, nel bene e nel male. Spesso l’insicurezza del bambino, il non sentirsi all’altezza, quel “Oddio da solo, ma io non ce la faccio. C’è bisogno di qualcuno più grande, degli adulti”. Quindi un po’ quel “da solo non ce la faccio”, un po’ quello. Però allo stesso tempo la voglia del gioco, che è fondamentale per il lavoro che faccio.

Paolo Camilli
Paolo Camilli – Foto: Instagram @paolocamilli

Paolo Camilli torna a teatro con Sconfort Zone”: ecco cosa ci ha raccontato

Sconfort Zone – Il paradiso delle irrelazioni” è il tuo nuovo spettacolo a teatro, una fotografia delle relazioni contemporanee, comica, precisa e spregiudicata: che cosa ci dobbiamo aspettare?

Innanzitutto nello spettacolo uso una particolare intelligenza artificiale, quella emotiva. È la mia compagna di viaggio.

Ma che cos’è la “sconfort zone”? È quella che tutti noi consideriamo, io per primo, come la confort zone, ovvero quella zona o situazione in cui ci sentiamo al sicuro, che crediamo essere confortevole, nella quale in realtà rimaniamo per paura o insicurezza. Quindi in realtà è tutt’altro che comoda, è scomoda.

Dunque, “Sconfort Zone” è un vero e proprio viaggio nelle relazioni, a 360 gradi. Non si parla solo di relazioni di coppia, ma anche di relazioni con gli amici, colleghi di lavoro, con la società, con noi stessi. Un viaggio unico vissuto attraverso gli occhi, e le gesta, di alcuni personaggi onirici surreali, noti e meno noti. Nel corso dello show entrano in gioco personaggi come: Carrie Bradshaw che è un’esperta delle relazioni amorose; Ilary Blasi, un’altra espertissima di dinamiche amorose; personaggi totalmente inediti, come Scupido, fratello segreto di Cupido, che è colui che separa, ma dalle relazioni tossiche. Quindi in realtà, chissà, forse è lui il vero fratello che crede nell’amore. E poi ci sono tanti altri personaggi.

 

Com’è nato questo show? Che cosa ti ha ispirato?

Questo show è nato all’improvviso, non l’avevo progettato. Ad un certo punto, dopo il mio precedente spettacolo, si è creata l’opportunità di farne uno nuovo e subito mi sono chiesto: “Oddio, ho qualcosa di cui parlare?”. Mi sono risposto di “Sì” e così, piano piano, è nato “Sconfort Zone”. Così, mentre in “L’Amico di Tutti” ho trattato il tema dell’amico immaginario, in questo nuovo spettacolo mi concentro sull’età adulta e sulle relazioni interpersonali che la caratterizzano. E per la prima volta mi mostro anche a teatro senza maschere, parlando non solo di quello che succede agli altri ma anche di quello che accade a me stesso.

 

Come anticipavi tu, nel tuo spettacolo ritroveremo alcuni personaggi che abbiamo imparato a conoscere sul web come Carrie Bradshaw e Ilary Blasi: come nascono queste imitazioni/parodie?

Molti nascono sotto la doccia. Altri, invece, per puro caso.

Carrie Bradshaw, ad esempio, è nata perché avevo comprato una parrucca bionda per girare dei video e mentre la indossavo mi sono detto: “Ammazza, ma sai che mi ricordo un sacco Carrie Bradshaw”. Così, un giorno, senza nemmeno averla mai provata, dico: “Senti, dovevo fare un video per un ADV. Approfitto visto che è un brand di make up, faccio Carrie, vediamo che succede” e da lì quel video è diventato virale. Quindi sì, nascono un po’ a caso, raramente sono troppo studiati.

Anche con la parodia di Ilary Blasi è successo lo stesso. Quando è uscito il suo docu-film “Unica”, che è stato iconico, mi sono detto: “Oddio, non posso non fare la parodia”. Così mi sono messo all’opera e solo dopo ho visto che era stata molto apprezzata, tra cui anche dalla stessa Ilary che mi ha scritto di averla apprezzato tantissimo, e che ne approfitto per ringraziare pubblicamente.

 

Allora come risponderebbe Ilary alla prossima domanda: c’è un programma al quale ti piacerebbe partecipare?

(Paolo Camilli imita Ilary Blasi): “Allora mo’ te lo dico,  l’Isola basta, veramente ho detto de no. Che devo condurre? Che posso condurre? Ma ho fatto tutto, dai. Ma veramente stai a fa’ la figura del caciottaro. Ma che domande so’? Ma dai, mo’ famo un film. Ma che posso fa? Ma dateme Sanremo!”

 

Vogliamo proporre la coppia inedita formata da Ilary Blasi e il suo alter ego?

Te lo immagini Sanremo con Ilary? Sarebbe tutto un: “Daje senti, dirige l’orchestra Coso, dai canta veloce che s’è fatta na certa, so stanca” un po’ così. “Daje ho sonno. È mezzanotte, dai”. Sarebbe bello! Sarebbe tutto veloce: “Dai scendi da sta scala, facciamole mobili ste scale, so più veloci”.

 

Molto carino, possiamo lanciare un appello…

Appello: Ilary Blasi e Paolo Camilli. Sanremo 2025, grazie.

Paolo Camilli: la sua parodia di Ilary Blasi

 

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In questo periodo si parla tanto di omologazione della narrazione e di censura. Ti è mai capitato di dover rivedere il testo di un tuo sketch comico per rispettare delle linee guida che ti erano state imposte dall’alto o perché vittima del cosiddetto “politically correct”?

In realtà no, non mi censuro mai. Ciò che faccio, invece, è quello di porre sempre la massima attenzione alla sensibilità altrui, che sia a teatro o sul web. Quando scrivo i miei pezzi, dunque, mi domando sempre se quella battuta che penso volutamente forte, può realmente centrare un punto o se rischia soltanto di colpire la sensibilità di qualcuno, senza lasciare nulla.

Io, ad esempio, non capisco la polemica sul politically correct. Come comici ci viene richiesto di fare uno sforzo in più per cercare di non ferire nessun ed io questo non lo leggo come un “Mo’ non si può più  di’ niente”, piuttosto come una volontà di rispettare tutte le sensibilità che certamente ci porta a dover fare uno sforzo maggiore nella scrittura, ma non per questo a doverci censurare. Credo si tratti di un normale percorso di evoluzione, che qualche volta può portarci persino a sbagliare. Credo che faccia tutto parte del gioco.

Ciò che proprio non mi va giù, invece, è la cosiddetta dittatura dell’essere perfetto che ci impone di non sbagliare mai. E se sbagli non vali più niente. Se ieri eri “Wow!” oggi sei “M*rda! Buh! Ti boicotto”. Questa cosa spesso accade anche nell’ambito della nostra comunità LGBTQ+. Ed io non lo apprezzo particolarmente. Credo possa capitare a tutti di fare uno scivolone e quindi il fatto di marchiare a vita una persona per una frase o una parola inopportuna, seppur grave, non è una cosa che condivido. Credo nella possibilità di cambiare idea e consapevolezze. Ahimè, però, non sempre siamo aperti nell’accettare questa evoluzione.

 

Nella tua vita c’è mai stata una zona di Sconfort? Se sì, quando e qual è stata? O qual è?

Tante, tuttə noi siamo pieni di zone di sconfort. Sicuramente mi sono scelto un lavoro che mi mette sempre in discussione e quindi mi mette sempre davanti al dover superare una mia zona di confort. Il che non vuol dire che lo faccio con nonchalance. Sono una persona molto emotiva, quindi poi le cose le vivo anche con: “O mio Dio, ora come farò?!”. Poi appunto sono ipercritico. Quindi, per rispondere alla tua domanda, la mia zona di confort è sempre stata quella di mostrarmi un po’ meno, mai al 100% per quello che sono. Adesso sto cercando di migliorare questo aspetto.

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