Cosa si intende quando si parla di Pink Capitalism?
Sin dagli anni 60’, le strategie di marketing si sono evolute per focalizzarsi più su nicchie specifiche, in modo da pubblicizzare prodotti e servizi in maniera ancora più focalizzata e raggiungere le persone giuste.
Il che significa che tantissime aziende e multinazionali hanno cominciato a spulciare qua e là diverse fasce di pubblico a cui rivolgersi, e – negli anni più recenti – questo fenomeno ha coinvolto anche la comunità LGBTQ+.
Azzannando una preda vulnerabile e con tanto bisogno di rappresentanza, le grandi catene hanno trovato nella comunità LGBTQ+ una nicchia piuttosto lucrativa su diversi fronti.
Se da una parte le vendite aumentano, aumenta anche la visibilità e la buona reputazione di chi sfrutta simboli e cause LGBTQ+ nelle sue strategie di marketing.
In slang popolare, questa pratica viene definita “Pink Capitalism” o “Rainbow Capitalism”.
Cos’è il Pink Capitalism e perché “non siamo mai contenti”
Il Pink Capitalism avviene quando un’azienda include la comunità LGBTQ+ in pubblicità e in campagne di marketing per il solo scopo di fare più soldi. È la mercificazione di un movimento sociale attraverso la vendita di merchandise specifico senza nessuna forma di attivismo a supporto.
Non è raro infatti vedere alcune aziende vendere questo tipo di gadget e prodotti avendo in passato dimostrato una spietata opposizione ai diritti di alcune minoranze.
Tuttavia, si stima che la comunità LGBTQ+ abbia un potere di spesa di circa 835 miliardi di dollari a livello globale.
E questo fa gola a multinazionali come la Nike, che tutti gli anni lancia le proprie snickers arcobaleno prodotte probabilmente da bambini cinesi sottopagati.
Il che la dice lunga su quanto le multinazionali siano davvero interessate a liberare minoranze e gruppi vulnerabili dall’oppressione. È un esempio lampante di come il Pink Washing vada a beneficio delle aziende senza muovere un dito per i diritti sociali.
Un altro esempio di attivismo performativo è quello di Urban Outfitters – popolare compagnia di abbigliamento statunitense – che ogni anno sforna prodotti a tema arcobaleno, salvo poi effettuare consistenti donazioni a politici omofobi.
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Millennials e Gen Z i più “fregati” dal Pink Capitalism
Le generazioni Y e Z sono state definite tra le più impegnate nei movimenti sociali: un consumatore giovane oggi fa più attenzione ai brand da cui acquista, e si impegna a supportare solo le aziende i cui valori si allineano con i propri.
Il che ha dato adito a pratiche come quella del Pink Capitalism, che aggirano il consumo critico sfruttando il movimento LGBTQ+, quello femminista e – perché no – anche quello antirazzista.
I meno informati ci cascano sempre, sperando di acquistare da aziende impegnate e andando invece ad appesantire il portafoglio di persone a cui, in realtà, non interessa di niente e di nessuno.
Il significato del Pride Month e perché fare attenzione al Pink Capitalism
Dobbiamo ricordarci che, fino alla metà del secolo scorso, gli appartenenti alla comunità LGBTQ+ non avevano quasi il diritto di esistere. Il cambiamento è partito tutto dai moti di Stonewall.
Nelle prime ore del 28 Giugno 1969, il gesto di Marsha P. Johnson – donna transgender di colore – cambiò la storia: in un impeto di rabbia e frustrazione, la donna lanciò un bicchiere di vetro a un gruppo di poliziotti, dando il via alla rivolta che celebriamo ogni anno a Giugno durante il Pride Month.
Il Pride Month esiste per ricordare al mondo le ingiustizie e gli ostacoli affrontati ancora oggi dalla comunità queer. Ha connotazioni sociali e politiche molto pregnanti, ed è il simbolo della lotta per i diritti di una comunità ancora oggi vulnerabile e discriminata.
Durante questo periodo dell’anno, in tutto il mondo, si svolgono marce e commemorazioni incredibilmente significative, ed è uno dei momenti in cui la comunità LGBTQ+ si unisce per far sentire la propria voce e celebrare liberamente la propria identità.
Quindi, vedere qualche multinazionale miliardaria sfruttare questo simbolo per i propri profitti una volta all’anno per poi dimenticarsene non ci fa sentire inclusi, ma usati.
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L’attivismo performativo del Pink Capitalism fa più danni che altro
Ogni anno, con l’inizio del Pride Month a Giugno, diversi colossi si intrufolano nel movimento utilizzando colori e simboli riconducibili al movimento LGBTQ+ nelle loro campagne di marketing.
L’arcobaleno nei loghi, i saldi dedicati e gli slogan sono solo una forma di attivismo performativo e una narrativa che vuole mostrare una mentalità progressista con la data di scadenza.
Sì, perché le tote bag arcobaleno e i proclami a cuore aperto dureranno fino al 30 giugno, per poi essere inscatolati e dimenticati fino all’anno successivo. Tanti in questi giorni sostituiranno la bandiera dell’Ucraina con quella arcobaleno, perché va di tendenza.
Il che potrebbe sembrare agli occhi dei più un impegno concreto verso la comunità LGBTQ+, una dimostrazione di solidarietà che però genera profitti milionari senza portare a un vero e proprio cambiamento sistematico.
Come quindi è successo per il Natale cristiano, anche la nostra festa laica del Pride Month è diventata per queste aziende una buffonata lucrativa, fatta di feste sponsorizzate e merchandise senz’anima.
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