Tre medici di Roma avrebbero eseguito sperimentazioni non autorizzate su pazienti transgender durante operazioni di riassegnazione del sesso.
Sono stati rinviati a giudizio il primario di Chirurgia plastica, un chirurgo e una biologa dell’ospedale Umberto I di Roma: avrebbero condotto “consapevolmente una sperimentazione sulle quattro donne transgender, ma senza acquisire la necessaria autorizzazione da parte dell’Agenzia italiana del farmaco e del Comitato etico dell’ospedale e senza informare adeguatamente le pazienti sui rischi a cui venivano esposte“. Rischiano dai 6 ai 12 anni di carcere.
La sperimentazione in questione sarebbe una tecnica “innovativa”, non contemplata nei protocolli ufficiali, per effettuare la riassegnazione del sesso: l’operazione comprenderebbe il prelievo del tessuto gengivale dalla bocca della paziente, la coltivazione del materiale biologico in laboratorio e l’innesto per formare il canale della vagina.
La tecnica era stata già testata, ma su donne nate biologicamente come tali: queste erano affette dalla sindrome Mayer Rokitanski Kuster Hauser, patologia rarissima per la quale non avviene il completo sviluppo della vagina. Per questo la colpa è quella di aver eseguito l’operazione su pazienti transgender, non testate in precedenza.
Le quattro donne dopo gli interventi hanno iniziato a manifestare problemi gravi: gravi infezioni, fistole, dolori e un progressivo “indebolimento dell’organo vaginale“. Secondo la difesa dei medici, questi problemi sarebbero da imputare al cattivo decorso post-operatorio, di responsabilità delle donne: “scarsa igiene o rapporti sessuali prima di una completa cicatrizzazione, il non aver voluto indossare un divaricatore interno per tutto il tempo consigliato“. Per l’accusa invece, le operazioni sarebbero state portate avanti quando già la prima paziente trattata presentava questi gravi problemi: “nel frattempo l’equipe dell’Umberto I decantava i presunti successi della nuova tecnica su una prestigiosa rivista medica statunitense“.
Ma c’è di più: le autorizzazioni necessarie, da richiedere al comitato etico dell’ospedale, erano state richieste quasi un anno dopo il primo intervento, nel luglio 2013. Inoltre né l’Istituto superiore di Sanità né l’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) erano stati messi al corrente dell’utilizzo del nuovo tessuto.
“Finalmente le ragazze vedono la giustizia in fondo al tunnel“, afferma Alessandra Gracis, avvocato difensore delle donne, anch’essa transgender. “Ci auguriamo che il sistema sanitario faccia i conti con queste storie e si attrezzi per fornire strutture adeguate e rispettose delle persone che vogliono cambiare sesso. Ideale sarebbe mettere in piedi un unico centro in tutta Italia, specializzato solo su questi tipi di intervento“.
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