Mahmood e Lucio Dalla, un’utopia che tiene insieme tutto, tra vertigine e grazia

A Sanremo per la serata duetti, insieme ai Tenores Bitti, Mahmood interpreterà "Com’è profondo il mare", title-track di un album che Lucio Dalla pubblica nel 1977, cambiando il corso della sua carriera.

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Febbraio 2024, Sanremo: Mahmood interpreta "Com'è profondo il mare" di Lucio Dalla, in duetto con i Tenores Bitti
Febbraio 2024, Sanremo: Mahmood interpreta "Com'è profondo il mare" di Lucio Dalla, in duetto con i Tenores Bitti
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Bitti è un borgo antichissimo nei pressi di Nuoro, in Sardegna. A vederlo dall’alto sembra un presepio in miniatura, una piccola pietra bianca nel verde della Barbagia. Se si tende un orecchio, invece, se ci si prepara all’ascolto, si sente il suo canto ancestrale, un suono altrettanto antico, nato insieme al paese, che è patrimonio immateriale dell’UNESCO. Bitti, infatti, è il luogo magico del canto a tenore, una forma polifonica tipicamente sarda e maschile. Quattro uomini, da tradizione, si serrano in un cerchio stretto. Uno di loro, al centro, canta l’amore o la rabbia, gli sberleffi o i racconti epici. Gli altri accompagnano, danno vita a un coro spontaneo di puro suono e accostamento fonetico. È l’espressione della vita di comunità di un mondo agro-pastorale ormai perduto, che sopravvive solo nelle memorie di pochi e, appunto, nel lascito folkloristico. Il canto dei Tenores di Bitti, che ha conquistato artisti come Peter Gabriel, Ornette Coleman, Lester Bowie e Frank Zappa, ha fatto il giro del mondo, dall’Europa al Cile, dagli Emirati Arabi al Giappone e stasera approderà al Teatro Ariston.

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Nella quarta serata del Festival di Sanremo, quella dedicata alle cover e ai duetti, infatti, i quattro tenori affiancheranno Mahmood nell’interpretazione di Com’è profondo il mare, title-track di un album che Lucio Dalla pubblica nel 1977 cambiando il corso della sua carriera. Una canzone complessa sotto ogni punto di vista, che mescola piani e tematiche: la Storia (dalla Rivoluzione russa della quarta strofa alla bomba nucleare della settima) insieme all’autobiografismo («Babbo, che eri un gran cacciatore di quaglie e di fagiani») e alla riflessione generale sulle sorti dell’umanità («È chiaro che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa, è muto come un pesce, anzi è un pesce e come pesce è difficile da bloccare»). Un inno degli ultimi che si rivolgono ai penultimi, e viceversa, e a un dio che ha smesso di esserci.

Un mescolamento, questo, che potrebbe apparire straniante se associato al repertorio di Mahmood, ma che invece è il perfetto paradigma della sua cifra artistica. È evidente, anche da questo Sanremo, che il cantautore ha trovato la sua personalissima misura nella commistione di linguaggi e codici apparentemente inconciliabili. Il suo immaginario, così riconoscibile, brulica di visioni estetiche e contenuti alieni l’uno all’altro. Le immagini del barrio – polaroid di un reportage che non lascia spazio all’immaginazione – si affiancano al racconto di un cuore mai sazio di amore e interrogativi. I suoi ragazzi, che sfrecciano ai margini e crescono in contesti desolati e semi-criminali, poi piangono di fronte al Love e masticano la polaroid di chi amano, poi di notte, singhiozzando, chiamano la mamma.

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È come se Mahmood fosse capace, e non è scontato, di tenere tra le mani un pianeta inventato e ancora sconosciuto, un piccolo mondo ancora da brevettare, un’utopia che tiene insieme tutto e che trova la sua forza in un miracoloso equilibrio tra la vertigine e la grazia. I cyborg, le creature del futuro che abdicano ai generi sessuali e alle certezze, parlano il dialetto di Orosei e si siedono sui gradini della casba. Le divinità greche incontrano Gundam e Inuyasha, e insieme abitano il cielo sopra Milano o sopra Berlino per poi precipitare nell’Ade o nel Naviglio. Anche musicalmente, il cantautore ci ha abituati alla piena ibridazione del linguaggio: il baile-funk incontra il folklore, che a sua volta chiama in causa il blues e il cantautorato, la black music e il rap, la trap e il pop più spudorato, addirittura il gospel, la musica sacra e quella elettronica. La sua estetica, poi, gioca con i confini e le soglie, scontenta tutti e piace a chiunque. Il grillz sui denti, tipico del maschio ipertrofico e disgraziato, diventa un dispositivo queer e completa egregiamente uno stile che si nutre di gonne, corsetti e camicie monospalla.

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Mahmood è un gitano della nostra musica, uno zingaro libero, come direbbe proprio Lucio Dalla. Non ha appartenenze, se non quelle dettate dalla sua stessa visione estetica. Non ha punti fissi, né immagini di sé a cui è troppo affezionato. Così risulta credibile, al fianco di Blanco o di Carmen Consoli, a Sanremo e nei club, a cantare la sua terra o Nina Simone.

 

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