Di univoco non ha nulla: tardo adolescente con il ruolo di chi è destinato a salvare il mondo in Dune, il nuovo film di Denis Villeneuve presentato fuori concorso a Venezia, Timothée Chalamet piace a chiunque perché, come si dice ora, la gentilezza è sexy.
Dal cinismo distaccato di di Kyle, il chitarrista che spezza il cuore a Lady Bird, al turbolento Nic che in Beautiful Boy lotta contro il padre e contro la dipendenza, le interpretazioni di Chalamet hanno l’energia tremula, leggera e nichilista della Z generation. E’ del resto in quel territorio di nessuno che accompagna il salto quotidiano e bipolare da un umore all’altro che Timothée cova l’esplosione della propria irrefrenabile queerness nei panni di Elio di “Chiamami col tuo nome” – la scena della pesca, lo dice la scienza, ha segnato a vita una generazione – e si aggiudica una nomination agli Oscar come miglior attore.
Ma non solo, si aggiudica anche l’ammirazione della comunità LGBTIQ+ worldwide che in quell’estate sospesa padana di Call Me By Your Name ritrova i sapori dolce-amari del disagio adolescenziale, delle ingestibili spinte ormonali e della prima delusione amorosa.
Timothée è l’archetipo della Generazione Z: idolo di chi ha voglia di osare, senza perdere la propria innocenza. Quando gli viene detto di essere stato soprannominato il principe etero dei twink risponde con nonchalance «what a good fortune». Il suo aspetto androgino assieme a quello della sua co-star Saorsie, afferma Greta Gerwig, la regista della rivisitazione di Piccole Donne del 2019, li rende perfetti per i personaggi di Jo e Laurie, che nel film si incontrano «prima di essersi imposti un ruolo di genere». È in questa sorta di rifiuto da parte di Chalamet e dei suoi personaggi di farsi etichettare che si disegna il futuro. Anche sui red carpet, il folleggiante teen idol franco-americano si presenta con look quantomeno inaspettati.
Certo, c’è la fisicità. Una certa magrezza, un certo capello in caduta libera sulla fronte, certi zigomi spigolosi che alludono ai boys di una sfilata di Hedi Slimane – ma attenzione: Timmy non si limita alla combo pantalone-slim + stivaletto + occhiale scuro, Timmy è ben capace di sbriciolare i confini del genere, Timmy non ha paura di un po’ di glitter. Del resto, non è la Z generation ad aver reso ormai obsoleta la visione monocorde di Hedi Slimane? Certi look iconici, ma in mille modi diversi, hanno reso Timmy persino “’uomo meglio vestito al mondo“. Un titolo da giornali, ma insomma: al marketing si strizza sempre un po’ l’occhio. Dal completo monocromatico magenta – su Twitter c’è addirittura un thread che raccoglie tutte le sue uscite firmate Stella McCartney – all’harness indossato alla cerimonia dei Golden Globe, fino ai look nelle foto che posta su Instagram (spesso senza caption, tanto per dire ciao ciao anche ai Millenial dei mille hashtag) capaci di riportare in voga il tye-dye, Timmy agita il caos anarchico del me-ne-frego di una generazione che non si farà pagare per indossare look a comando come un qualsiasi influencer.
Quest’anno Timmy presenterà il MET Gala assieme a Billie Eilish. Confidente sul tappeto rosso, nelle interviste se ne sta un po’ ricurvo sulle spalle, addirittura cade giù dalla sedia (gli è successo durante una conferenza stampa). Un impaccio istintivo, e però studiato. L’istinto di capire cosa funzioni. L’innata connessione con quei frammenti del sé funzionali alla auto-rappresentazione, in quella selva impossibile da gestire che è lo star system ai tempi dei social network. Timothée è un po’ di tutti, come forse fu soltanto Leonardo DiCaprio, e allo stesso tempo non è di nessuno. Sfuggevole anche all’etichetta di enfant prodige, di gran carriera e con il cinismo della super-star, ha sorvolato persino la questione Woody Allen, e devoluto il compenso ad alcune associazioni LGBT. Pragmatismo da Z generation.
Se su TikTok è ancora virale il video che immortala lo sbigottito volto di una fan che tempo prima gli aveva chiesto un autografo, anche a Venezia eccolo svolazzare sulle ali della spontaneità (un po’ ci è, un po’ ci fa): si è avvicinato alle transenne e ciao ciao pandemia e green pass e regole di distanza. La sicurezza l’ha dovuto scortare via. Siparietto riuscito. In Dune lo mireremo nuovamente in un mondo di adulti da cui impara, ascolta, con i quali si scontra quando lo ritiene necessario. Perché in fondo sono loro che hanno da imparare. Imparare che è ok lasciarsi andare a quello che si è. Imparare che tutta la nostra teenage angst (sì, quella che abbiamo avuto tutti) può evolversi in identità pubblica. A venti come a cinquanta o a settant’anni. Ché ogni umano, in fondo, è queer. E che queer significa esistere pubblicamente per ciò che siamo.
Foto: @robertomoro_photographer per @picoplanoselection
Call me by your name: indignazione e disgusto a Napoli per il post virale >
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