Lo scorso weekend hanno riaperto le discoteche.
Dalla scena milanese (Plastic, Toilet Club, la Boum) fino alla capitale romana (Muccassassina, Giam, Largo Venue), al Cassero LGBT Center di Bologna e dal prossimo venerdì anche il Venus di Napoli – i club notturni di tutta Italia hanno riacceso luci stroboscopiche, accogliendo sulla pista ogni corpo (col green pass) e lasciarlo ondeggiare fino all’alba.
Un evento che parla a tuttǝ ma non a tuttǝ interessa: c’è chi si è abituato così tanto a restare sul divano da non sentirne la mancanza, ma anche chi ancora non lo trova uno spazio abbastanza sicuro per divertirsi come vorrebbe.
Perché tornare in discoteca è una possibilità che da tre anni a questa parte ci siamo educati a non contemplare più: immergersi in una calca di sconosciuti, strusciarsi l’uno contro l’altro, alitarsi addosso a viso scoperto, dimenticare ipocondria e catastrofi naturali per qualche ora.
Le spiacevoli circostanze ci hanno abituato a non considerare più andare a ballare un bene di prima necessità, come se la baldoria e il bisogno di contatto umano siano delle esigenze troppo frivole per una pandemia globale.
Per fortuna, dico io, siamo anche frivole e occasionalmente sceme.
Oggi più di ieri, stare al mondo richiede anche due, tre, quattro ore per liberarci dagli impegni quotidiani, dimenticare tutto quello che manca, archiviare l’angoscia o possibilmente accompagnarla sulla pista da ballo insieme a noi, distrarla con l’esibizione delle drag sul palco, stordirla nello sguardo di uno sconosciuto.
Andare a ballare, piaccia o meno, è un antidoto alla cultura stacanovista, che ci vuole macchine produttive instancabili, alimentate esclusivamente attraverso il lavoro, valide solo se spuntiamo tutte le caselle che la status quo si aspetta da noi.
In discoteca la musica è troppo alta per trovare le parole giuste, e possiamo affidarci al linguaggio del corpo, risvegliato e sollecitato dopo mesi di torpore. Un corpo rigido e spaesato quando ci annoiamo e non vediamo l’ora di tornare a casa. Noncurante e libero quando parte la nostra canzone preferita, quella che fino a ieri ballavamo da soli in camera.
Perché andare a ballare è importante, in particolare per le persone queer.
Dalla fine degli anni sessanta, quando a New York le ballroom accoglievano ogni minoranza braccata dalle forze dell’ordine o senza fissa dimora , le discoteche LGBTQIA+ assumono la forma di uno spazio protetto, un luogo dove ogni identità esiliata può celebrarsi, sprigionare sulla pista da ballo tutto quello che per strada va contenuto.
Nel migliore dei casi è un’occasione per incontrarsi, riconoscersi, baciarsi, ma anche sostenersi lontani da occhi indiscreti o prediche morali. Se negli anni 70, le minoranze ballavano fino alle tre del mattino per sfuggire alla polizia, oggi balliamo per rispondere ad un sistema che osa ancora contestare chi siamo e giocare a ping-pong con le nostre storie.
Possiamo andare a ballare e ritrovare degli affetti stabili svincolati da ogni legame di sangue, una famiglia notturna con cui muoverci al ritmo dei nostri corpi, finalmente liberi. Anche solo per una notte.
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