Sono circa 10.000 per il governo del Bangladesh, che li riconosce ormai come un genere a sé, mentre per le associazioni LGBT sono almeno mezzo milione. Gli hijra – termine diffuso in tutta l’Asia meridionale per riferirsi agli individui transgender e transessuali – dopo un lungo periodo di discriminazioni, nel 2013 hanno finalmente ottenuto il diritto ad avere documenti consoni alla loro identità, il diritto di voto, quello all’istruzione e alla sanità. Anche se di fatto restano quotidianamente vittime di discriminazioni e abusi.
Molto spesso vengono mandati via di casa, rifiutati dai genitori. Spesso non frequentano la scuola. Questo li ha resi tradizionalmente impossibilitati a inserirsi nelle società e li costringe a vivere insieme, in gruppi e comunità, rispettando regole e gerarchie interne a ciascun gruppo. Una figura più autorevole, un “guru”, generalmente il più anziano, accoglie nella comunità i nuovi arrivati: omosessuali e trans, e che si guadagnano da vivere prostituendosi o chiedendo l’elemosina.
Gli hijra hanno sempre vissuto esistenze polarizzate, in bilico tra sacralità e segregazione. Nella maggior parte dei casi gli hijra nascono con una fisiologia tipicamente maschile, solo pochi nascono con variazioni riconducenti all’intersessualità. La rimozione dei genitali maschili è un aspetto frequente, e costituisce un passaggio simile a un rito.
C’è una forte ambivalenza attorno alla parola Hijra: accanto all’elemento dell’esclusione e dello stigma, c’è anche l’aspetto tradizionale, antico. Queste persone vengono viste infatti come semi-divine e le loro benedizioni vengono richieste in occasione della nascita di un nuovo bambino.
Quest’ambivalenza che può diventare problematica, ipocrita. Ad esempio spesso gli hijra hanno rapporto o relazioni con uomini sposati che in pubblico dichiarano il loro disprezzo per questo “terzo genere” quando invece in privato poi coltivano un interesse morboso e irrefrenabile per queste stesse persone.
Le foto che vedete in queste pagine sono di Raffaele Petralla, fotografo di Roma che, viaggiando per il Bangladesh ha dato vita ad un suggestivo progetto, realizzato tra l’aprile e il maggio 2015 a Dhaka.
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