C’era un tempo che niente mi spaventava più del ghosting.
Non importa quanto quell’appuntamento fosse andato bene, perché i minuti successivi mi catapultavano in un tunnel di paranoia, mosso dall’ipotesi che l’altro non mi rispondesse più.
Quando vedevo la notifica del messaggio ogni angoscia si placava. Potevo di punto in bianco staccarmi dallo schermo e continuare la mia giornata, perché quel messaggino infimo e insignificante, era la conferma nero su bianco che l’altro mi pensava come io pensavo a lui, che eravamo sullo stesso piano, e fossimo protagonisti dello stesso film, scritto e diretto dentro la mia testa.
Ma quando spariva nel nulla, come tutti i fantasmi tornava a tormentarmi: com’è morto? È scappato oltreoceano? È colpa mia perché non ho curato la punteggiatura? È colpa tua perché mi hai illuso? Qualunque domanda non trovava risposta perché l’altro era evaporato via come anidride carbonica.
Potremmo stare ore a disquisire su come anni fa, il problema non si ponesse perché gli smartphone non esistevano e nemmeno il visualizzato su Whatsapp. Perché ooggi l’ipotesi che l’altro sparisca nel nulla è il peggiore esito possibile, un trauma che potrebbe ripetersi ogni volta, rendendoci sempre più paranoici e insicuri di prima.
Un studio tenuto da Sage Journals nel 2020 rileva che il 16% sparisce perché non vuole ferirci, mentre l’8% teme la nostra reazione. Il motore, in entrambi i casi, è la paura di comunicare: potremmo aver parlato per ore del nostro colore preferito, dei nostri lavori, di cosa abbiamo studiato e dei nostri coinquilini, ma se si tratta di mettere le emozioni sul piatto, col rischio di rivelarci molto più scomodi e incoerenti di quanto credevamo, le parole vengono a mancare.
Il ghosting varia in base alla percezione delle parti coinvolte: è ghosting se ci siamo visti per un mese e poi sparisci? È ghosting dopo una scopata capitata per caso? Se ci scriviamo di tutto nei dm e poi di botto niente? Se siamo su Grindr? Se risponde dopo 4 ore? Recentemente ho sentito parlare anche di semi-ghosting, come quando qualcuno sparisce ma non del tutto. Ti scrive ma non come prima, e tu senti che qualcosa si è inclinato ma non si capisce ancora bene cosa, perché nessuno lo dice.
Il ghosting era l’uomo nero delle mie frequentazioni finché non l’ho fatto anche io: il mio interesse all’improvviso è andato altrove e l’entusiasmo del primo messaggio è stato sostituito da nuovi pensieri, dubbi, e preoccupazioni che non avevano nulla a che fare con l’altro, ma con una stupidità tutta mia. Non volevo fornire spiegazioni perché non c’era nessuna spiegazione da dare: ero solo io, con il mio umore volubile, incapace di sostenere le aspettative di nessuno, e zero voglia di verbalizzarlo.
In quel momento, ho iniziato a provare comprensione per chi avesse fatto ghosting prima di me: l’assenza di risposte non ci rendeva due australopitechi incapaci d’amare, ma apriva le porte a mille possibili scenari che non avevo preso in considerazione, perché troppo impegnato a pretendere una risposta.
Mi sono accorto che conoscere davvero qualcuno richiede un viaggio molto più lungo e imprevedibile del previsto, che non può essere scandito dal numero di “come stai?” che ci scriviamo al giorno. Soprattutto mi ha permesso di (ri)considerare da capo quel codice comportamentale che ci vuole attaccati allo schermo, obbligati ad inviare un messaggino privo di contenuti solo perché “va fatto, altrimenti non sei davvero interessato”, ciecamente devoti all’obbligo morale di placare le insicurezze dell’altro.
Scoprendo l’altra faccia della medaglia, ho realizzato che il ghosting fa male come qualunque altra forma di rifiuto. Quello che ci infastidisce di più è il modo, ma spesso nemmeno io ho voglia di ricevere le tue spiegazioni. Proprio perché, con alte probabilità, sono banali e inutili come le mie.
L’unica cosa che possiamo fare è leggere tra le righe, istruirci ad un minimo d’empatia, e cercare di non infestare la vita di nessuno.
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