Se Luca, evangelista della mansuetudine, potesse vedere ‘La Passione di Cristo‘ di Mel Gibson inorridirebbe non poco. E dire che i Vangeli, a cui l’autore rivendica fedeltà assoluta, sono molto parchi nel descrivere i dettagli del martirio e della flagellazione. Ma qui siamo al cinema, davanti a uno strano film che è innanzitutto un prodigioso fenomeno commerciale: ha già incassato negli Usa 350 milioni di dollari e ne è costato 30, esce in Italia in 700 copie supportato da un battage massmediatico notevole e porterà nelle tasche dell’autore almeno 300 milioni di dollari.
L’intento di Gibson è molto chiaro: scioccare lo spettatore medio. Il che, a priori, non è detto che sia un male, poiché di questi tempi non rimanere indifferenti davanti a un film non è poco. Ma quando si ha tra le mani la più grande storia mai raccontata bisognerebbe stare più attenti e andarci un po’ più cauti. Gibson, integralista cattolico, crea invece, con indubbia passione, il più sanguinolento, trucido, grandguignolesco film su Cristo mai realizzato. Fatto con maestria, per carità, recitato bene in aramaico e (americaneggiante) latino, scelta che inizialmente può creare sconcerto e allontanare spettatori ma che si rivela fondamentale per non sottrarre peso alla forza delle immagini.
Peccato però che non ci sia ombra di poesia nel Gesù di Mel, né la profondità del messaggio cattolico ma solo un’inquietante proiezione di un Male diffuso ovunque, epidemico, quasi un «rex verminorum» identico all’insulto al Messia dei legionari romani che si rispecchia nella carcassa di cavallo in putrefazione mentre Giuda si impicca e nel lombrichino che entra nella narice di un allarmante diavolo femmina con voce di uomo (forse l’invenzione più d’impatto del film, un’azzeccata Rosalinda Celentano con sopracciglio rasato e bimbo-mostro in braccio).
E allo spettatore non resta che confrontarsi con la minaccia di Gibson: anche noi che guardiamo abbiamo la nostra colpa, l’abbiamo ucciso come i veri colpevoli, la mano che lo inchioda (nel film è proprio quella del regista) appartiene a ciascuno di noi. Insomma, l’esatto contrario di quell’opera d’arte che è ‘Il vangelo secondo Matteo‘ di Pasolini girato nelle stesse locations dei Sassi di Matera ma che trasudava umanità e desiderio di vera redenzione, non vendetta e crudeltà a colpi di getti idraulici di sangue finto. Anche la dolcezza dello splendido Cristo incarnato dal giovane basco Enrique Irazoqui non ha nulla a che vedere con l’eroica immagine da iconografia classica di Jim Caviezel, truccato a dovere (gli hanno rifatto anche il naso per renderlo più semita) e con un occhio chiuso per le botte dopo dieci minuti di film.
E lo sguardo che giudica è la principale ossessione di questo film sadicamente voyeurista: deformato da lenti colorate, accecato da corvi neri come quello del ladrone in una scena da puro Argento, inondato dalle lacrime come quello di Dio che scatena un vero e proprio tempestoso terremoto alla morte del Cristo, è lo specchio dello stile concitato, febbrile, fortemente americano di Gibson che mescola rallentamenti, incombenti soggettive divine e flashback anche troppo riduttivi come un’accennata ultima cena e un’ingenua scenetta in cui il Redentore realizza un tavolino in perfetto stile Ikea. Se in Pasolini la macchina da presa cercava di carpire il senso del sacro attraverso emozionanti inquadrature pittoriche, ne ‘La passione di Cristo‘ l’obiettivo del regista è solo mostrare iperrealisticamente le brutalità inflitte a Gesù finendo per assuefare lo spettatore esattamente come l’overflow di violenza in un qualsiasi telegiornale contemporaneo narcotizza la sensibilità di chi sta davanti alla tv.
Insomma, un gridato catto-horror in definitiva né bello né brutto ma inevitabilmente medio, con attori in parte (che la Bellucci nei panni di Maddalena sia stata favorita dal plot in aramaico?), obiettivamente antiebraico (Mel rifiuta il Concilio Vaticano II) e in odor di cine-proselitismo fanatico.
La tesi sostenuta dal critico di ‘Vanity Fair’ Christophen Hitchens che l’omofobico Gibson abbia fatto finalmente un film “che si rivolge principalmente alla comunità gay cristiana e sadomaso” è ovviamente un’idiozia e non c’è nulla di erotico in questo Cristo martirizzato come San Sebastiano, sì, ma certo non con lo sguardo languidamente fotografico di un Von Gloeden né tantomeno registicamente queer alla Derek Jarman.
L’unico vero scandalo è invece che un film così violento non abbia alcun tipo di divieto.
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