#CinemaSTop: Ramirez e Bracey, adoni top del remake di Point Break

Da vedere lo sconvolgente 'Il figlio di Saul'. Escono anche 'Joy' e 'The Look of Silence'.

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Point Break, Edgar Ramirez e Luke Bracey supereroi volanti nel remake omonimo
Remake omonimo (ma meno omofilo) del ‘surfilm’ cult di Kathryn Bigelow, unica regista donna premiata con doppio Oscar (ma per The Hurt Locker), riprende le vicende dei divini cavalcatori di onde incarnati, questa volta, dagli avvenenti adoni Edgar Ramirez (bomba da overdose di sensualità venezuelana, il Sudamerica tira al massimo) e l’australiano Luke Bracey (angelico biondone, ha qualcosa di Keanu) al posto di Patrick Swayze e, appunto, il sublime Reeves.
Qui sembra un lungo spottone di intimo maschile con tartarugone e pettorali da massima esaltazione scultorea e gli ammiratori apprezzeranno. Bodhy e Johnny Utah diventano, quindi, due ‘bodies’ da urlo, volanti come supereroi (ahimé, insorabilmente etero) a caccia di criminali alla Robin Hood tecno-evoluti, in un mash up accelerato di zuffe maschie, messaggi ecologisti-zen, free climbing, base jumping e altri sport estremi oltre ogni limite dell’adrenalina visiva. Regia di Ericson Core, noto soprattutto come direttore della fotografia, più impegnato a dirigere le bravissime controfigure che i due bellimbocci: loro mica male, comunque, a livello epidermico.

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Sconvolgente esperienza visiva ma soprattutto sonora: è Il Figlio di Saul, Auschwitz visto dall’interno

Dopo la visione al Festival di Cannes dove vinse un meritato Grand Prix, un malessere diffuso serpeggiava tra i giornalisti: Il Figlio di Saul è un’esperienza visiva sconvolgente ma, soprattutto, sonora; è la dirompente opera prima dell’ungherese Laszlo Nemes.
Auschwitz, visto dall’interno: Saul è un membro del Sonderkommando, quello sparuto gruppo di deportati ebrei addetti ai forni crematori, “gli uomini più tristi del Lager. Di fatto siamo gli uomini più tristi nella storia del mondo […] e i più disgustosi” come li definisce Martin Amis ne La zona d’interesse.
La scelta registica di Nemes è radicale: la videocamera non si stacca praticamente mai dal corpo del protagonista (un glaciale Géza Roehrig), cosicché l’orrore resta quasi tutto fuori campo, più o meno flou. Lo spettatore ha due possibilità: o identificarsi nel protagonista, immergendosi soprattutto a livello uditivo nell’orrore (l’esperienza è disturbante: si pensi alla fortissima scena della fossa comune), o rifiutare in toto l’ottica “da videogame macabro” come qualcuno ha interpretato questa potentissima provocazione intellettuale nel raccontare l’indicibile. Primo Levi diceva del Sonderkommando che “a loro sollievo, non rimaneva neppure la consapevolezza di essere innocenti”. Perdete ogni sicurezza voi ch’entrate (nella sala cinematografica).
Vincitore del Globo d’Oro come miglior film straniero, è in pole per l’Oscar. Pubblico avvertito: non dimenticate.

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L’inventrice del mocio è la lanciatissima Jennifer Lawrence: Joy, sì, ma la gioia è nel supercast!

Fiaba pop alla Frank Capra ma più immalinconita, Joy di David O. Russell è la storia vera della casalinga inventrice del mocio autostrizzabile, il Miracle Mop. All’anagrafe è l’italoamericana Joy Mangano ora cinquantanovenne milionaria, inventrice anche di ammazzapuzze varie, portaabiti ottimizzati, scarpette in gomma magiche.
Cast da grande occasione per una strizzata d’occhio al grottesco sul grande, ineffabile, consumista sogno americano: Robert De Niro, Isabella Rossellini, Diane Ladd, l’immancabile Bradley Cooper, ormai ‘fidanzatino’ ufficiale, almeno cinematografico, di Lady 52 Milioni (cifra ufficiosa del compenso complessivo della Lawrence nel 2015). E c’è pure Edgar Ramirez – vedi sopra, è uno degli adoni di Point Break – nel ruolo secondario di Tony.
Il Miracle Mop come la scopa del sistema, per dirla alla David Foster Wallace?

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Torna in sala The Look of Silence, grande doc su un massacro indonesiano

Riecco in sala un doc di altissimo profilo premiato a Venezia due anni fa, perfetto per il cinefilo ortodosso che cerca profondità di sguardo, storia potente e un carisma esoticamente morale che arriva da lontano e resta nella memoria. Nell’Indonesia in mano al generale Suharto, in soli due anni a partire dal 1965, una delle più sanguinose epurazioni della Storia segna, per sempre, l’anima di questo popolo orientale. Più di un milione di persone viene massacrato da gruppi paramilitari.
Il bravissimo regista danese-americano Joshua Oppenheimer ci presenta la famiglia dell’optometrista Adi, il cui fratello fu mutilato e ucciso barbaramente, il padre ultracentenario è completamente cieco e la mamma ottantenne prega perché venga fatta vendetta dell’omicidio del figlio.
Radicale cinema della realtà sul senso della vendetta e del perdono, è uno dei più intensi, acuti, profondi documentari degli ultimi anni.

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