ACETeam, la prima squadra di calcio a 5 in Italia composta solo da persone trans e non binarie – INTERVISTA

"La nostra non è solo una squadra sportiva, ma politica. Utilizziamo nostro ruolo e la nostra visibilità per promuovere i nostri valori, non solo sul campo, ma anche nella società in generale".

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Hanno lo stesso spirito di squadra, gli stessi sogni e speranze, e la stessa determinazione di qualsiasi altra squadra di calcio. Il tratto distintivo dell’ACETeam – che prende il nome da ACET Associazione Transgenere -,  è la sua rosa, composta solo da persone trans e non binarie.

Un progetto unico e rivoluzionario nel panorama italiano, che incarna non solo lo spirito competitivo dello sport, ma anche i valori di inclusività e rappresentanza della comunità LGBTQIA+.

Quello che dico sempre è che quando avremo raggiunto il nostro obiettivo, la nostra squadra non avrà più senso di esistere” – spiega Noah Solito, uno degli atleti.

Sì, perché l’obiettivo dell’ACETeam è di rendere lo sport davvero per tutt*, una tematica tabù specialmente in un ambiente macho come quello del calcio, a tutti i livelli.

Nato quasi casualmente, il team ha preso vita a seguito di una grande richiesta di partecipazione dopo il torneo “Te lo do io il Qatar, organizzato da Open Milano Calcio come protesta al vergognoso atteggiamento di FIFA, che ha scelto di organizzare gli ultimi mondiali di calcio in un paese dove i diritti umani vengono calpestati ogni giorno.

Inizialmente, l’idea non era quella di formare una squadra, ma la risposta entusiasta della comunità ha trasformato un singolo evento in un progetto sportivo a lungo termine.

Oggi, ACETeam si sta strutturando come una realtà sportiva e sociale, ponendosi come punto di riferimento per le persone trans che desiderano praticare sport in un ambiente sicuro e accogliente.

Per comprendere meglio l’essenza del progetto e il suo impatto sia nello sport che nella società, abbiamo avuto l’opportunità di parlarne con il presidente di ACET, Guglielmo Giannotta, e quattro atlet*: Noah Solito, Nico Guglielmo e Tommaso Fiore, che hanno condiviso con noi le loro esperienze, le sfide, gli obiettivi e le aspirazioni del progetto.

Dal progetto “Te lo do io il Qatar” l’ACETeam è cresciuto molto. Ora siete strutturati?

Noah: Inizialmente, abbiamo partecipato al torneo come esperienza una tantum. Ci sembrava una bellissima occasione, abbiamo dato la disponibilità.

Lo abbiamo raccontato sui social proprio solo per raccontarlo, non ci aspettavamo una risposta come quella che abbiamo avuto. Ci sono arrivate tantissime richieste, una trentina in pochissimi giorni e quindi ci siamo messi al lavoro per strutturarci.

Abbiamo detto OK, c’è una grandissima esigenza, possiamo andare a sopperire a questa mancanza? Sì e abbiamo creato questo progetto.

Lo scopo ovviamente di questo progetto era sì creare uno spazio che fosse di decompressione di relax per le persone trans che avevano piacere a partecipare. Diversamente, non avrebbero potuto farlo, perché ad oggi diversi regolamenti escludono le persone trans e non binarie dallo sport.

Ma era anche un modo per arrivare all’esterno, quindi ovviamente farci vedere come squadra, come progetto, ed avere una valenza sociale.

Far capire quanto sia importante anche per le persone trans, avere accesso allo sport e far capire anche però le difficoltà che abbiamo riscontrato e su cui abbiamo dovuto ragionare tutti insieme.

A settembre abbiamo ricominciato l’attività con una squadra di 30 persone, attualmente siamo a 29 ma ne abbiamo due che ci raggiungeranno, uno dalla Svezia, uno dalla Spagna, molto presto. Siamo la prima squadra sportiva formata interamente da persone trans in Italia.

E siamo forse la seconda o la terza in Europa. Ce n’è una a Londra e una a Barcellona, sempre di calcio. È un progetto molto pionieristico, la cosa bella sarà anche magari riuscire ai nei prossimi anni ad incontrarci con queste realtà.

Abbiamo anche creato questo progetto che è dedicato alle persone della squadra che si chiama empowerment. Non solo uno spazio per giocare a calcio un giorno a settimana, ma un progetto per la crescita personale delle persone.

Per prendere sicurezza con loro stesse, ma anche col mondo. Perché giustamente il fatto di creare una squadra safe non impedisce che possano esserci delle problematiche, perché comunque la squadra è inserita nel contesto sociale e culturale che noi conosciamo.

Tommaso: quanto riguarda la messa a terra del progetto che è iniziata l’anno scorso, inteso come anno accademico, è stata progettata molto bene anche per dal punto di vista economico. I costi che i ragazzi devono sostenere sono veramente bassi, abbiamo una quota di iscrizione annuale di 42,50€, di cui 12,50€ vanno ad open e 30 vanno ad ACET per il resto.

Il pagamento della divisa d’allenamento, i campi, l’allenatrice, le amichevoli, il campionato è tutto pagato da ACET tramite delle sponsorizzazioni. Questo tema qua di accessibilità a livello economico, che è importante per delle persone trans che già devono sostenere tendenzialmente dei costi non indifferenti, per quanto riguarda i loro percorsi di affermazione in genere.

Durante le vostre esperienze in campo, avete incontrato delle sfide in termini di accettazione e rispetto dagli altri team?

Guglielmo: Sì, ricordo un episodio in particolare. Abbiamo avuto un inconveniente con una squadra, ma non riguardava direttamente la nostra identità di genere. La questione era più legata a un approccio diverso riguardo la sportività e il rispetto sul campo.

La squadra in questione era composta per la maggior parte da uomini eterocis che giocano a calcio fin da quando erano bambini. Quindi, avevano una visione della competizione e della sportività molto radicata e diversa dalla nostra. Non è che ci abbiano insultato o mancato di rispetto direttamente per essere una squadra trans, ma il loro modo di affrontare la partita era problematico.

Quando è evidente che una squadra è molto più debole, ci si aspetterebbe un certo livello di comprensione e rispetto. Invece, questa squadra ha approfittato della situazione. Non solo hanno giocato aggressivamente, ma hanno anche preso in giro, umiliando la nostra squadra con vari giochini sul campo.

Era come se mancasse loro la comprensione di un fair play o di una sportività inclusiva, che tiene conto delle diverse abilità e storie delle squadre avversarie.

Sicuramente è stato un momento di riflessione per noi. Ci ha fatto capire quanto sia importante lavorare non solo sulle abilità sportive ma anche sulla costruzione di un ambiente di gioco rispettoso e inclusivo.

Da allora, ci siamo impegnati ancora di più per promuovere questi valori non solo all’interno della nostra squadra, ma anche nel cercare di sensibilizzare le altre squadre e l’ambiente sportivo in generale.

Potete dirci qualcosa sulle iniziative in merito che avete intrapreso?

Guglielmo: Attualmente stiamo attivando un programma di formazione specifico con UISP, l’organizzazione con cui collaboriamo. Abbiamo già implementato la carriera alias con UISP, ma stiamo programmando di estendere la formazione agli arbitri e ad altri professionisti del settore sportivo.

L’obiettivo è di sensibilizzare le figure chiave nel mondo dello sport, come arbitri e dirigenti delle ASD, rispetto alle tematiche LGBTQIA+ e trans. Vogliamo creare un ambiente più inclusivo e consapevole, partendo proprio dalle persone che hanno un ruolo decisionale e di leadership in questo ambito.

Invece di andare verso uno scontro verbale in casi come quello che abbiamo raccontato, abbiamo optato per un approccio più costruttivo. Abbiamo organizzato una chiacchierata informale, dove abbiamo condiviso e spiegato cosa significa essere una persona trans. Questo ci ha permesso non solo di risolvere la tensione, ma anche di educare e sensibilizzare l’altra squadra.

La nostra non è solo una squadra sportiva, ma politica. Cerchiamo di utilizzare il nostro ruolo e la nostra visibilità per promuovere la consapevolezza e l’inclusione, non solo sul campo, ma anche nella società in generale.

Avete citato anche il torneo New Fivǝ? Volete parlarci di cosa si tratta?

Guglielmo: Il New Five è terza fase di un progetto più grande che si chiama “Te lo dò il Qatar”, un progetto di lancio in collaborazione con Open.

Il progetto è stato articolato in tre fasi, di cui la terza era il New Five, il campionato, la prima era il torneo. È stato quello col quale abbiamo tirato su le persone per giocare in quella singola occasione.

Tommaso: La shwa simboleggia anche una realtà unica nel suo genere, perchè negli altri tornei e campionati viene adottato un atteggiamento molto binario, mentre qui lǝ atletǝ vengono suddivisǝ a seconda della loro competenza, non dell’identità di genere.

E in materia di inclusione, quali sono i vostri protocolli sia sul campo che dal punto di vista dell’amministrazione generale del vostro team?

Noah: Abbiamo la carriera alias in cui la compilazione non richiede l’indicazione del sesso. Mettiamo una serie di dati anagrafici che generano un codice fiscale diciamo fittizio, che è quello su cui si basa il tesseramento. In campo facciamo sempre giro di pronomi, giro di nomi.

Le persone possono utilizzare il pronome che vogliono, possono cambiarlo nel corso del tempo. Quando ci andiamo a rapportare con le altre squadre, noi abbiamo una lista delle persone che giocano in squadra.

Abbiamo uno spogliatoio che è condiviso, tutta la squadra insieme nello stesso spogliatoio. L’idea è quella di una squadra mista, di un campionato misto, basato sul livello di competenza e di abilità a livello calcistico.

Un consiglio per chi volesse avviare un progetto come il vostro, dalla vostra esperienza?

Nico: È fondamentale garantire che il progetto sia economicamente accessibile, specialmente considerando che molte persone trans devono già affrontare costi significativi nei loro percorsi personali e di affermazione. Vogliamo che lo sport sia un’attività inclusiva e accessibile a tutti, indipendentemente dalla situazione economica.

Guglielmo: Il nostro consiglio principale è di ascoltare attivamente le persone protagoniste del progetto, come ha fatto Open con noi. È fondamentale incontrare le esigenze e i desideri delle persone direttamente coinvolte nel progetto – in questo caso, le persone trans e non binarie – perché solo loro sanno di cos’hanno bisogno.

Questo approccio garantisce che il progetto rimanga fedele alle loro necessità e aspettative. Inoltre, permette di creare un ambiente in cui tutti si sentono valorizzati e parte integrante del progetto stesso.

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