La dolce vita di un femminiello nell’ultimo libro di Gabriella Romano

Il racconto autobiografico di un femminiello napoletano tratteggia, nei ricordi di un ultrasettantenne, la dolce vita omosessuale nel secondo Novecento in Italia.

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C’è il tocco lieve della dolcezza dei ricordi, l’ebbrezza di una sessualità esuberante, il sapore di una vita vissuta senza rimpianti e l’orgoglio di una diversità manifesta nel racconto autobiografico di un femminiello napoletano raccolto nell’ultimo lavoro di Gabriella Romano sotto il titolo La Tarantina e la sua “dolce vita” (ed. Ombre Corte 10 €).
La documentarista, non nuova a lavori che annegano la penna nella memoria, restituisce così all’oggi, grazie a testimonianze dirette, storie di vita gay di ieri.
E’ suo il riuscito Il mio nome è Lucy, l’Italia del XX secolo nei ricordi di una transessuale (ed. Donzelli 16 €) insieme al fortunato I sapori della seduzione, il ricettario dell’amore tra donne nell’Italia degli anni ’50 (Ombre Corte 13 €), saggi che offrono al lettore la ricostruzione di una memoria collettiva, un’opera preziosa per la crescita una comunità condivisa in un paese che fatica a misurarsi con identità sociali riconoscibili.

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E dall’incontro-confronto con Carmelo Cosma, classe 1936, nasce La Tarantina e la sua “dolce vita” una preziosa testimonianza autobiografico che ci porta diritto dritto alla fine della guerra in un viaggio della speranza da Avetrana a Roma.
Carmelo non è che un ragazzino sbarbato che grazie all’autostop macina chilometri per separarsi da quella famiglia d’origine che non aveva più: “la mia famiglia di nascita mi ha ripudiato”.
Sono ancora lontani i fasti che lo vedranno sperimentare fino in fondo quella “sua natura” così visibile e assumere i panni della Tarantina, uno tra gli attori e i protagonisti della dolce vita romana.
Nei ricordi di Carmelo il filo della memoria avanza e retrocede naturalmente, restituendoci a nudo la Tarantina fin dai primi passi, al paesello, quando “già a sette, otto anni, iniziavo ad atteggiarmi in determinati modi, diciamo femminei”. Gabriella Romano, grazie ad presenza discreta e non sollecita, a differenza dei lavori precedenti, favorisce il fluire naturale del racconto. E’ la protagonista che sceglie i tempi, i modi e la declinazione con la quale si restituisce al lettore e lo fa definendosi costantemente nel sovrapporsi di maschile e femminile, la stessa fusione di generi che vive, e ha vissuto intensamente, per tutta una esistenza.

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E non ha peli sulla lingua nel ricostruire con tutto il realismo che merita, oltre alle esperienze quotidiane, il suo desiderio, e anche l’essere desiderato: “Ebbi fin da subito un successo enorme. La mia vanità era veramente appagata perché ero ammirato, desiderato, molto richiesto e di conseguenza ben pagato”.
E sulla sua strada incontrerà anche lo scrittore Goffredo Parise, “una lunga amicizia che il tempo non è mai riuscito a scalfire” che lo introdurrà alla Roma frizzante della dolce vita, quel miscuglio effervescente di umanità che tra via Veneto e via Margutta gustava la vertigine delle possibilità e dei piaceri. Sarà Parise a guidarla in quegli anni “di grande euforia, sfrenatezza, c’era il gusto di esagerare, di infrangere i tabù del passato”, tra “arresti, scandali, feste e orge”, come ricostruisce con dovizia di particolari la Tarantina.
Ma non è uno ieri tutto ebbrezza e luci della ribalta. I ricordi lontani annacquano, almeno un poco, tutta la violenza, la paura, la discriminazione e l’omofobia subìta: “comunque, non è che fossero tutte rose e fiori, intendiamoci bene”, ci spiega, mentre il pensiero corre veloce a un volo pericolosissimo nel Tevere, spinta da ragazzotti, alle retate e all’odio mai spento della famiglia d’origine.
Ma la “dolce vita” corre troppo veloce anche per la Tarantina che si sentirà in trappola e deciderà di riparare su Napoli per godere della sua generosa accoglienza dei femminielli.

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Il racconto, ampio, restituisce con genuinità e dolcezza insolita una vita vissuta senza rimpianti.
Il testo, arricchito da un supporto fotografico e da un saggio di Eugenio Zito sui femminielli di Napoli, si inserisce in un filone della ricostruzione diretta del nostro passato prossimo che, con la pubblicazione di Quando eravamo froci, gli omosessuali nell’Italia di una volta di Andrea Pini (ed. Il Saggiatore € 21) incomincia finalmente ad avere qualche fortuna anche in Italia.
E volgere lo sguardo a ieri, oltre che a misurare il cambiamento di oggi, lascia spazi vergini alla riflessione sul rapporto tra diversità e norma e sul prezioso patrimonio comune di gioie e dolori che condividiamo noi gay, lesbiche e trans.
Per questo La tarantina e la sua “dolce vita” con la confidenza dei ricordi che esprime, rafforza la percezione di quanto sia ormai matura la rivoluzione del costume italiana nel rapporto con l’universo omosessuale e trans, nonostante tutto. E regala un gradito sorriso di ottimismo a tutti i lettori.

di Stefano Bolognini

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