BARCELLONA – In principio fu Castro a San Francisco. E non parliamo del leader cubano in visita alla città californiana ma del primo quartiere gay riconosciuto come tale in tutto il mondo e nato intorno a Castro Street, su una collina nella parte ovest della città del Golden Gate. Dopo di lui in molte altre metropoli si sono andate formando, a partire dagli anni ’70, zone in cui si concentravano bar, luoghi di ritrovo e discoteche gay e dove la popolazione omosessuale era una presenza molto visibile: il Greenwich Village a New York, Soho a Londra, il Marais a Parigi o Chueca a Madrid. Ora anche a Barcellona, nel raggio di pochi isolati del quartiere ottocentesco dell’Eixample e intorno ai locali gay storici, si assiste a un fermento di attività commerciali legate al mondo omosessuale e a una notevole concentrazione di coppie e singles gay e lesbiche che si stabiliscono in questa zona, tanto da essere rinominata, conseguentemente, con il nome di Gayxample. Nel raggio di quattrocento metri si possono contare otto bar e caffé, due studi medici, tre negozi di arredamento, dieci disco bar e discoteche, una palestra, una galleria d’arte, otto negozi di moda, quattro parrucchieri, un gabinetto legale, cinque ristoranti e due saune. Tutte attività commerciali gestite da omosessuali o comunque dirette esplicitamente a una clientela gay, pubblicizzate nelle riviste dell’ambiente e spesso riconoscibili da bandiere arcobaleno all’entrata.
Questa “esplosione gay” tutta catalana ha rinfocolato il dibattito sui quartieri gay: per alcuni si tratta di zone dove noi omosessuali, in quanto maggioranza numerica e visibile, possiamo vivere liberamente il nostro status e dove “se due ragazzi camminano mano nella mano nessuno ha niente da ridire”, per altri si tratta invece di un ghetto. Tra coloro che sono favorevoli ai quartieri gay l’elemento della visibilità è senz’altro quello di maggior peso. Il quartiere gay è come voler sottolineare la propria identità, una maniera di manifestare il gay pride, un segno al resto della città equivalente al “ci siamo anche noi!”. Per i detrattori, al contrario, vivere, lavorare, andare a fare la spesa e in palestra, uscire la sera al ristorante, al bar o in discoteca semplicemente girando l’angolo significa chiudersi in una prigione, dorata però fatta pur sempre di sbarre invisibili che tagliano fuori dal resto della città. Senza dubbio la nascita di attività diverse da quelle destinate al divertimento, come negozi di vario genere, agenzie di viaggi, studi medici e veterinari o gabinetti legali gestiti da omosessuali ma destinati a chiunque è un segno di una visibilità “diurna” molto importante.
E non è un caso che i più entusiasti all’idea del quartiere gay siano i turisti italiani. Le metropoli italiane infatti, pur contando su una nutrita popolazione omosex, non hanno mai visto la nascita di un quartiere gay. A Milano la zona intorno alla stazione, e precisamente la via Sammartini, non può ancora essere considerata tale, mentre a Roma, dove i locali gay sono ancora dispersi, il fatto che ve ne siano alcuni nella zona di S.Maria Maggiore sembra più dovuto alla casualità e al minor costo degli affitti dei locali che ad esigenze di aggregazione. In Italia la mancanza di quartieri gay è sintomatica del livello di visibilità che abbiamo raggiunto: omosessuale sì, però preferibilmente di notte, e se il vicino di casa mi vede all’entrata del bar gay posso sempre dire che andavo al bar accanto dove stanno trasmettendo la partita sulla pay-per-view. Così, qui a Barcellona, la nascita della zona gay indica anche il livello di accettazione diffusa che esiste nel resto della città. Si tratta tuttavia di un passaggio intermedio, qualcosa che con il tempo dovrà svilupparsi nella direzione di una apertura ancora maggiore, urbanistica e sociale. Dovremo dunque passare dal momento dell’accettazione diffusa a quello dell’integrazione. Tappa già superata in quei paesi dove il quartiere gay non esiste più, come la Svezia, la Danimarca o l’Olanda. Ad Amsterdam ci sono zone in cui maggiormente si raggruppano bar e discoteche, ma pi§ che di visibilità sembra si possa parlare di comodità. Il pericolo infatti che il rione, il quartiere, la zona si trasformi in un ghetto è reale e allo stesso tempo paradossale: che senso ha abitare in una metropoli cosmopolita e vivere poi all’interno di un villaggio?
Le stesse città che hanno dato il via ai quartieri gay, San Francisco e New York, stanno vivendo questa evoluzione. Castro Street è diventato un luogo turistico, per passeggiare e fare qualche fotografia, ma la comunità gay è ormai integrata in tutta la città e non è visibile qui più che in altre zone come SoMa, Polk o Marina. Il Village di New York è più un quartiere trendy che rosa, e i gay (sia chiaro quelli danarosi, perché vivere a Manhattan non è per nulla economico) si sono spostati verso Chelsea e Midtown. E anche il Gayxample di Barcellona, come il Chueca di madrid, non sono il traguardo di una ulteriore separazione ma un passo verso una maggiore integrazione che la Spagna sta compiendo a grandi passi lasciando l’Italia ancora al palo.
di Silvio Ajmone
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