MILANO – L’Aids, almeno nel mondo occidentale, non miete più vittime come una decina di anni fa grazie ai passi avanti fatti dalla medicina e all’informazione sulla prevenzione, ciò nonostante i pregiudizi sono duri a morire. Al convegno su terapia e psicologia nell’assistenza al malato di Aids, Giove Bevacqua, che da 15 anni convive con il virus, ha raccontato di essere stato respinto nel 1997 dagli Stati Uniti in quanto malato. Un altro episodio è stato raccontato da una volontaria milanese che segue i malati di Aids. L’altro giorno – ha raccontato – un taxista milanese ha obbligato un paziente che aveva chiesto di essere accompagnato al reparto infettivi del Sacco a scendere dal taxi.
“Nel 1997 – ha raccontato Bevacqua – mi ero recato a Memphis nel Tennesee per festeggiare il capodanno. Alla dogana ho aperto la valigia dentro la quale avevo diversi flaconi con tutte le pastiglie per la mia terapia. Mi hanno chiesto il perchè di quelle medicine e ho spiegato di essere sieropositivo. Mi hanno allora detto di attendere e poco dopo mi hanno stampigliato sul passaporto una croce e rispedito indietro con lo stesso aereo. Negli Usa molti Stati operano questo tipo di discriminazione”.
Il convegno, promosso dalla Società di psicoinfettivologia con il sostegno di Gilead Sciences, moderato da Alessandro Cecchi Paone, è servito per approfondire il delicato aspetto della cura dei malati di Aids, costretti a terapie che comportano la somministrazione di una decina di pastiglie al giorno con conseguenze gravi dal punto di vista psicologico. Da qualche anno la ricerca ha consentito la diminuzione del numero di pastiglie grazie ai nuovi farmaci che si possono prendere in un’unica somministrazione giornaliera.
Dal convegno al quale hanno partecipato l’infettivologo Mauro Moroni, lo psichiatra Fabrizio Starace e lo psicologo Alberto Vito è emersa la necessità di una maggiore collaborazione nella cura dei malati di Aids da parte delle tre categorie di specialisti.
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