Devo fare una premessa: è impossibile trasmettere con le parole scritte l’esperienza di un italiano – cresciuto e che vive in Italia – al Berlin Pride. È come un bagno mistico nella libertà, un nutrimento per le membra, un perenne stimolo erotico per il cervello.
Fare un confronto tra realtà italiana e berlinese sarebbe troppo semplice, avvilente e tarperebbe la rielabirazione alle prime fasi. Per questo ho cercato una chiave di lettura differente sia dal racconto di cronaca che dalla lamentazione/esaltazione: ho intervistato i partecipanti osservando ciò che ne sarebbe scaturito.
Il primo che ho fermato è un uomo-cane che non parla inglese. Al mio approccio ha risposto se volessi il suo Whatsapp per potermi servire di lui. Ho gentilmente declinato, gli ho chiesto di potergli fare una foto e me ne sono andato con la coda fra le gambe.
Ho, poi, incontrato una ragazza di 23 anni che mi ha raccontato che per lei è “normale” essere al Berlin Pride. Ha superato qualche piccola resistenza in famiglia, dopo il coming out, senza patire troppo, e ora vive serena con la propria identità. Ho dovuto farla posare con il mio compagno per farle una foto, poiché da sola si vergognava un po’, proprio come in una situazione “normale” (cresta arcobaleno a parte) dove uno sconosciuto tenta di fotografarti. E di “usuale”, in effetti, questo Pride ha tanto. Come il natale per i cristiani, questo evento ha per molti giovani berlinesi un significato di ricorrenza vera e propria. Dove l’aspetto battagliero e di rivendicazione resta in sottofondo.
Dopo questa intervista la parata inizia e la trentina di carri con musica e gente festante s’incammina. L’imponente massa di gente e mezzi ha davanti a sé ben sei chilometri da percorrere. Dietro a un carro BDSM incontro un signore sulla cinquantina, tutto vestito di pelle. Domando a lui di raccontarmi qualcosa e sin da subito spiega che il Pride, per lui, significa essere “realmente” sé stesso. Lo provoco chiedendo se, dunque, nella vita quotidiana non finga di essere qualcun’altro. Scoppia a ridere e mi dice “sono io, ma così come mi vedi ora lo sono solo nel privato. Qui posso esprimere in pubblico questo lato di me, ed è fantastico”. Il sole mi acceca e riesco a scattargli una foto senza accorgermi di avere un dito sull’obiettivo.
Al quarto chilometro inizio a sentire la stanchezza. Mi fermo a comprare mezzo litro d’acqua (nota dell’autore: 2,50€ è un prezzo folle e a Berlino non esistono fontanelle pubbliche: shame on you!) e vengo colpito – in tutti i sensi – da una coda di pavone appartenente a un umano profondamente agraziato e sensuale. Aggancio lei e una sua amica per parlare del perché sian al Berlin Pride. “Perché voglio che i diritti di tutti, non solo LGBTQI, vengano rispettati”. Le dico che concordo, ma questo non può essere l’unico motivo di tanta pubblica favolosità. “Oggi posso esprimermi per quella che sono. Vorrei poterlo fare tutti i giorni!”.
Risalgo velocemente i carri e mi colpisce la massiccia presenza di brand e aziende, tra tutte la BD (ferrovie tedesche). Unico confronto che mi concedo: ce la vedete Trenitalia con un carro di drag e manzi in mutande al Pride di Roma?
Incrocio gli ultimi due intervistati, due ragazzi “molto giovani” (così rispondo alla domanda sull’età). Provo a chiedere loro se avessero passato problemi legati alla propria identità sessuale e, di tutta risposta, ricevo un paio di sguardi accigliati. “Naturalmente no!” Mi risponde uno dei due. “In Germania c’è una mentalità più aperta rispetto ad altri luoghi europei. Essere nato a Berlino è stato un bene, per me è fondamentale il luogo in cui si nasce per poter vivere la propria libera sessualità”.
Ormai la parata sta per volgere al termine. Le persone si stendono sui marciapiedi o nei prati dei parchi attorno alla torre di Brandeburgo. Mentre cammino verso il metrò, mi concedo uno scatto di quelli che il moralizzatore medio userebbe per qualche meme contro i Gay Pride. Um gruppetto di ragazzi nudi, vestiti solo da strisce di pelle qua e là e pseudo-protezioni di plexiglas colorato che camminano a braccetto. Il ragazzo più giovane del gruppetto mi nota e si avvicina con fare bellicoso. Quando si trova a pochi centimetri da me mi regala un enorme sorriso e tenta di stamparmi un bacio in bocca. “Perché mi fotografi?” chiede. Rispondo che sto tentando di raccontare il Berlin Pride raccogliendo i pensieri dei partecipanti e sarebbe bello se mi dicesse qualcosa anche lui. M’interrompe subito, mi dà una tastatina alle gioie, mi bacia la guancia e se ne va saltellando.
Forse quest’ultimo folletto contemporaneo è la più genuina figura per la lettura di un evento come il Berlin Pride. Esprimere se stessi, anche ricercando la provocazione; portare ciò che ci appartiene, dalla lotta politica alla storia dei movimenti, dalla nostra vita sessuale (con tutte le preferenze del caso, nessuna esclusa) a quella professionale; ballare fino a collassare; usare l’occasione come una passerella o riversarvi l’aspetto antisociale che c’è in noi. Un solo concetto unisce tutte le storie che ho sentito (e che non ho potuto riportare, per non annoiarvi più di quanto non abbia già fatto sino ad ora): al Berlin Pride ci si va con il proprio spirito, senza limitare gli altri, senza sentirsi offesi per “l’essenza” dell’altro. Nessuno decide se andare in “giacca e cravatta” o “in tenuta adamitica”. Questo spirito è una delle basi per costruire una società inclusiva ed equa. Il rispetto per l’altro, la libertà d’espressione di sé stessi, insieme alla solidarietà e all’uguaglianza economica, sono le basi per vivere felici. E questo Pride me lo ha confermato!
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