28 dicembre 2021
Ricordo di averti scritto di non sentirmi a casa in alcun luogo, che ormai sono un estraneo ovunque, non integrato, non partecipe. C’ho messo del tempo, ma pensandoci, oggi casa è su questo treno, in questo spazio che collega i due nuclei della mia vita, in questo tempo sospeso. Forse casa per me è l’incertezza, ciò che è nel mezzo, senza alcun punto fermo.
Forse casa è nel viaggio, nel movimento: osservare fuori e vedere che tutto va via e nulla mi appartiene; nell’anonimato del cammino, nei volti di chi, con me, condivide questo tragitto senza sapere se resterà uno sconosciuto o diventerà confidente – tra la scusa di una valigia da spostare e il ritardo accumulato dal treno. Delle volte mi sento a casa tra sconosciuti, in paesaggi stranieri, tra chi non sa nulla di me: mi illudo che per quel breve tempo tutto possa cambiare, tutto possa essere nuovo, diverso…
Mi chiamo Angelo Rosa e da qualche mese lavoro a Gay.it, insieme alla redazione e a tutti i collaboratori. Circa sei mesi fa, uscendo da un periodo particolarmente difficile, ho scritto questa parvenza di riflessione a una mia amica. Ovviamente ho mentito. Ho mentito a me stesso; sull’alta velocità di ritorno a Milano, ho desiderato che quelle parole fossero vere.
Quasi in Stazione Centrale, dopo aver passato pochi giorni nel mio paese natale, ho sentito il bisogno di riordinare i pensieri – ancora troppo confusi – dopo cinque anni da fuorisede. E per farlo ho usato parole sincere, ma rassicuranti, che mettessero un punto, anzi dei punti sospensivi, al mio barcamenarmi tra metropoli e collinetta di quattro case e stesse facce di sempre.
Come spesso accade, diversi spunti di riflessione me li offre la lettura. In questi giorni dialogo con l’edizione dell’’86, ormai quasi introvabile, del Frasario Essenziale di Ennio Flaiano. A pagina 147, uno dei più grandi intellettuali del secolo scorso scrive:
“Perché a una certa età è difficile tornare, anzi restare dopo esservi tornato, nel paese natale. I tuoi compaesani sono à la page. Tu sei rimasto indietro, nella grande città. Tu sogni la vita semplice, le amicizie senza implicazioni, sei nelle buone letture, hai capito che l’oro è la merda del diavolo […]: lì invece credono ancora che la felicità sia nel darsi da fare, sia altrove”.
Forse basta poco, ma in un attimo si riaccende in me una tensione che da sempre mi tormenta. Non da sempre, da cinque anni; cioè da quando ho messo piede a Milano e ho capito che avrei voluto tornare indietro. Ma a che costo? E da questa domanda parte la sopracitata sospensione spazio-temporale, offerta da Trenitalia, che ho realizzato solo dopo quattro anni e mezzo.
Non ritengo di essere queer in quanto membro della nostra comunità, ritengo di essere queer in quanto nato nell’entroterra del Sud, in una delle Province meno note d’Italia, su un’altura addobbata da poche decine di case.
Sono queer perché la prima educazione l’ho ricevuta dalla stratificazione di colline che delinea l’orizzonte – quindi un altrove immaginato e sognato – tipico di questi territori, tra i più strumentalizzati e dimenticati del nostro Paese. L’Italia interna, quando non è presa di mira da un architetto, con il mito del verde verticale, o da chi vuole farla diventare un enorme albergo diffuso, vive nel più profondo sonno.
Un sonno che ti ferisce a morte e da cui vorresti solo scappare. Quando hai 18 anni è facile dare la colpa al posto in cui nasci, a chi ti ha cresciuto, agli amici, ai parenti, a chiunque sembra ti stia soffocando. Hai voglia di trovare la tua isola felice, un luogo in cui riconoscerti e sentirti accettato. Cosa meglio di una metropoli? E se questa è Milano? Nessuno ti vede, puoi sceglierti le amicizie, puoi iniziare una vita nuova.
Ma ricrei le stesse gabbie, la stessa retorica sciocca dei rapporti umani, finisci per essere nuovamente frustrato, nuovamente deluso. Da chi stai fuggendo? Da cosa?
Sempre nello stesso breviario di Flaiano, ho letto una frase che mi ha lasciato attonito per un’intera giornata e che da allora continua a tormentarmi: “Spesso penso che la vera saggezza sia di continuare a vivere dove si nasce. Una volta credevo soltanto nella fuga”.
Parole che rappresentano più di qualsiasi altre il tormento che vorrei placare, che dà significato ai miei sentimenti e alle mie azioni. Come conciliare questa mania di vivere tutto come dovessi andare via con le colline, i tramonti, le crepe nelle case abbandonate e il ritmo da goccia della mia Terra?
Come conciliare i due nuclei della mia vita? Basta un viaggio in treno per mettere in discussione le poche certezze che mi sono costruito dall’altra parte (in entrambe le direzioni). Ognuno dei due mondi ha le sue verità, i suoi segreti e delle ragioni per restare in piedi. Io sono al centro, una volta magnetizzato dal caos della Città, un’altra dai fantasmi del mio Paese. E non so ancora conciliare “E la fidanzatina?“, “Lo studio come va?“, “Quando ti sistemi?“, “E questi fianchetti?“, “Sei dimagrito troppo!” con le catene che al di là di tutto mi fanno tornare qui ancora e ancora, come se avessi da pagare un pegno con questo posto che mi fa soffrire, ma mi tiene in vita col suo essere tanto simile a me.
“E sempre dovrò partire / e fare i bagagli / e permettere al mio poco corpo / una corsa che non gli si addice / e prolungare gli inganni e demente / rincorrere tutte le storie anche quelle / che avrebbero preferito un silenzio. / Ma valorose sono le partenze / anche se un imbarazzo spesso le consuma”. (Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974), Patrizia Cavalli)
Io credo ancora nella fuga, credo ancora nel limbo in cui mi trovo quando sono sul treno, perché ho 24 anni e non so decidere. Non voglio farmi fottere dalla nostalgia, ma nemmeno disunirmi. “Non ti disunire Fabio. Non ti disunire mai”, dice l’Antonio Capuano di Sorrentino.
Eppure, forse, è la scelta migliore, lasciar stare la nostalgia, disunirmi. Dire addio ai fantasmi e iniziare a vivere, dissolvere questo enorme senso di colpa che pesa sulla mia coscienza. Non posso scusarmi con tutti perché non sono abbastanza, perché non faccio molto per il mio territorio, per la mia gente, per la mia comunità qui.
“Qui se ne sono andati tutti, specialmente chi è rimasto“, io un giorno tornerò e vi farò felici, ora devo andare. Mi aspetta il prossimo viaggio in treno mentre ascolto Napul è. Devo disunirmi per tornare.
“Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore, stupore di essersela tanto presa per così poco…”. (Seminario sulla gioventù, Aldo Busi)
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