Quando sono a casa dei miei genitori, da che ho memoria, mio padre tiene sempre la televisione accesa: è un sottofondo che accompagna ogni spostamento del giorno, dalla colazione al pranzo, dalla cena all’alba. La televisione rimane accesa tutta la notte, perché mio padre dice che gli concilia il sonno. Se gliela spengo mentre sta russando, lui si sveglia e si lamenta, perché, dopo ventiquattro ore, ti sei permesso di spegnerla.
Mentre ceniamo, tra un boccone e l’altro, al tg scorrono le notizie del giorno – quasi sempre le stesse, strutturate strategicamente per sfamare i migliori capri espiatori – e mio padre le commenta tutte. “Non ce se crede” è la sua frase preferita, accompagnata da un bestemmione infilato ad hoc per ogni forchettata di tagliatella al sugo. L’aumento delle tasse, le nuove restrizioni, le elezioni comunali, le alluvioni dall’altra parte del paese, o l’ultimo film di Checco Zalone, non fanno differenza, perché mio padre ha una frase e una bestemmia per tutte.
Quando parlano del DDL Zan mio padre, però, diventa una pianta. Immobile. Silenziosa. Se in parlamento si esulta perché la legge è stata disapprovata o qualche deputato della Lega dichiara di volermi sciolto nell’acido, mio padre si trasforma in Giulio Andreotti e io Paola Perego: presidente? Presidente? Mia madre, d’altro canto, si incazza come una serpe del grano. Ma anche lei, in verità, ha imparato a farlo. Perché una volta era in coma anche lei. Poi, un giorno, si è risvegliata dal lungo sonno e ora non riesce più a dormirci sopra. Dice che riguarda sul personale anche lei, che la battaglia per i diritti della comunità LGBTQIA+ non è poi così distante da quella sul femminicidio o dal fatto che viene pagata meno dei colleghi maschi. Mia madre ha scoperto il femminismo intersezionale senza sapere che si chiama femminismo intersezionale.
Mio padre nel frattempo trangugia il Montepulciano.
C’è un giovane della mia età che è stato gonfiato di botte in stazione mentre era mano nella mano con un altro ragazzo, e mio padre mi chiede gentilmente di passargli il pecorino.
Gli uomini come mio padre sono amati da chiunque: fanno sempre le battute che tutti vogliono sentire, intervengono senza destabilizzare l’ordine dei pensieri e nessuno ne risente. Si fanno in quattro se hai bisogno di aiuto, e vengono notoriamente definiti dei grandi lavoratori, quindi nobilitati per la fatica spesa senza lamentarsi mai. Gli uomini come mio padre vengono chiamati “pezzi di pane”, troppo buoni e semplici per volergli male.
Gli uomini come mio padre non possono neanche essere omofobi: lui è lo stesso che, quando ero in terza media, parcheggiava a qualche isolato dall’entrata della scuola e controllava che nessuno mi aggredisse. Mio padre si è occupato di me perché questo gli è capitato, ma lui non sa nulla di tuttǝ lǝ altrǝ. Sono storie che non lo riguardano, ad ognuno le sue croci.
Cosa penserà mio padre della comunità LGBTQIA+? Ci ammira, ci teme, o entrambe le cose? Forse anche lui ci reputa troppo “estrosi” per prenderci sul serio e troppo suscettibili per ridere alle sue battute. Mio padre cena serenamente con un sostenitore di Giorgia Meloni, senza metterne mai in discussione le opinioni. Tace perché acconsente? O perché non vuole creare discussioni? Perché è sempre meglio non far agitare nessuno, soprattutto altri uomini come lui. Tutto quello che mio padre sa su di noi l’ha conosciuto grazie a Malgioglio, Platinette, Renato Zero dei tempi d’oro – che era comunque “un gran performer”- gli sketch nei cinepanettoni dove c’è la modella con “la sorpresina tra le gambe” e altre paroline usate sempre in buona fede dai comici in prima serata.
Mio padre non mi ha mai chiesto se ho paura a camminare per strada da solo, ma quella volta che sono uscito in drag mi ha chiesto almeno di coprirmi perché “se ti ferma qualcuno che gli dici conciato così”?
Mio padre sa di aver superato l’esame del “cattivo padre” perché non mi ha cacciato di casa e dopo il mio coming out continua a russare più rumorosamente di prima, ma è anche libero dalla croce di doversi interfacciare con una realtà che cambia sotto i suoi occhi, che scalpita, urla, chiede di essere ascoltata e tutelata.
La realtà che mio padre sceglie di non guardare respira alle sue spalle, si muove tra le mura di casa, vive a trecentocinquanta chilometri di lontananza, esprime la propria indignazione ad alta voce o in un articolo che non ha tempo di leggere, eppure nulla è sufficiente per farlo incazzare insieme a me.
Cosa penserà mio padre davanti a tutta questa nostra indignazione? Penserà che è normale. Perché mia madre è una donna, e si sa che le donne si agitano di più, sono più sensibili soprattutto quando hanno le loro cose.
Perché a me chiamano ricch*one da quando ho tre anni e non può che toccarmi sul privato. Se i ricch*oni e le donne si agitano sempre di più, che cosa agita gli uomini come mio padre? La società li assolve così velocemente, che non sono tenuti ad essere responsabili delle loro azioni. Sono legittimati ogni giorno a dire tutto quello che vogliono e a intervenire su ogni argomento, anche quelli che non conoscono o che hanno sempre osservato passandosi il binocolo, esclusivamente attraverso il proprio filtro personale. Oppure, come lui, restano in silenzio: se non dico niente, posso tornare a concentrarmi sulla mia fetta di realtà, su quello che ho sempre conosciuto senza addentrarmi in territori in cui potrei sentirmi non più così comodo.
Perché se c’è qualcosa che terrorizza davvero mio padre è l’ipotesi che qualcuno possa infestare la sua quiete. Se c’è una cosa che terrorizza mio padre è rendersi conto che la lente attraverso cui guarda il mondo non è universale, e che il mondo potrebbe non assolverlo. E che qualcuno potrebbe accusarlo di non essere un buon padre, un buon marito, un uomo buono. Potrebbe accorgersi che quella poltrona fatta di privilegi e giustificazioni non è così solida come ha sempre creduto. E che ad un certo punto sarà anche ora di alzarsi.
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