Qualche giorno fa sono uscito con un amico che mi ha fatto una domanda spiazzante. Come mai prendere un caffè con qualcuno è più intimo che andarci a letto? In quel momento non ho saputo cosa rispondere. Ripensandoci nelle ore successive sono arrivato alla conclusione: perché il caffè lo prendi alla luce del giorno, da sobrio, mettendo in mostra chi sei veramente mentre guardi l’altro negli occhi. Difatti, è con i vestiti addosso che ci spogliamo davvero. Il sesso, in realtà, è molto più mentale che fisico. È la ragione per la quale possiamo provare eccitazione con un telefono, immaginando di stare accanto al partner quando in realtà siamo entrambi fisicamente lontani. È la connessione mentale e reciproca che permette il raggiungimento del godimento pieno e autentico. Questo però è solo possibile grazie alla fiducia. E la fiducia non può esserci al primo appuntamento, poiché la si costruisce con il tempo.
Ne consegue che avere un rapporto sessuale immediato, quando si è di fatto sconosciuti e disinteressati l’uno dell’altro, brucia in molti casi la possibilità di sviluppare l’intimità. In fondo, come possiamo pensare che andare a letto con qualcuno alla prima sia un metro di giudizio efficace per valutare se c’è chimica? L’intesa erotica solamente può arrivare con la conoscenza mutua nel tempo, aprendosi emotivamente e mostrandosi vulnerabili. Perciò, dare all’altro la possibilità di una seconda uscita unicamente in base all’esito del primo incontro sessuale rappresenta una trappola in cui molti di noi cadono senza rendersene conto; una trappola che è figlia dell’immediatezza performante della società fast food attuale.
Mi sono spesso chiesto perché si dicesse “finire a letto insieme” quando ho sempre pensato che in quel luogo non finisse proprio nulla, bensì fosse da lì che poi tutto cominciasse. Crescendo, ho compreso il vero significato di questo detto. Di fatto, “sessualizzazione” e “socializzazione” non sono sinonimi. L’espressione “finire a letto insieme” è traduzione della graduale e spontanea maturazione del desiderio condiviso. Per la maggior parte dei gay, invece, i due termini vengono usati in maniera intercambiabile. Anzi, frequentemente ci fermiamo al primo. A causa dell’assenza di punti di riferimento sociali e culturali, impariamo da soli ad abbassarci i pantaloni molto prima di abbassare la guardia. Conosciamo bene la spinta dell’attrazione, ma assai poco quella del sentimento. E compensiamo questa grande falla con la scusa o l’autoinganno di iniziare con il sesso per vedere rapidamente se c’è affiatamento.
Il problema è che restando in questa disposizione relazionale, nella quale la moneta di scambio è il corpo, il rapporto finisce per avvenire all’interno di una bolla, staccato completamente dalla realtà circostante. Ci vediamo a casa di uno sconosciuto e lì, per quei pochi minuti, entriamo in un’altra dimensione. L’atto è puramente fine a sé stesso, isolato da qualsiasi tipo di trasporto emotivo o possibilità di seguito. Incluso la conversazione, tanto in chat come in persona, è meglio limitarla al minimo, dal momento che qualsiasi piccolo gesto, atto o domanda potrebbe spostarsi sul terreno personale. Questa situazione implica per noi un forte lavoro coercitivo di dissociazione da tutte le altre dimensioni che fanno parte della nostra identità.
Incontriamo qualcuno e pensiamo che il passo più difficile sia stato fatto, quando invece è proprio da quel momento che si richiedono impegno e pazienza per coltivare una possibile relazione. E se il sesso al primo appuntamento non ci appaga come avevamo immaginato o previsto, è meglio sparire e passare direttamente alla prossima preda. La risposta che ci diamo è sempre la stessa: non c’è feeling. Allora riapriamo Grindr e costelliamo il nostro profilo con frasi del tipo “cerco gente interessante”. Cosa ci aspettiamo? Che nel mezzo della folla ci sia qualcuno con un cartello luminoso che dica “scegli me, sono speciale, sono interessante”? Come si misura il grado di interesse che sprigiona un estraneo? Dipende davvero da caratteristiche intrinseche alla persona o stiamo semplicemente scappando dal mostro verde della responsabilità?
Malgrado tutto, lo spirito di contraddizione resta. Ironicamente, diciamo di volere una cosa ma poi facciamo l’opposto. Sebbene nel profondo possiamo desiderare una relazione seria (ma ce lo teniamo per noi dal momento che l’amore esclusivo non va più di moda), al di fuori manteniamo unicamente rapporti fisici e compulsivi. I messaggi capitalistici di adesso ci aiutano a rafforzare questa diatriba interiore. Sui social network è molto comune trovare slogan come “assapora il presente”, “non hai bisogno di nessuno per essere felice”, “privilegia i tuoi scopi”, “non dipendere da nessuno”. Per quanto tali mantra abbiano legittimità, trovo che vengano portati all’estremo. L’idea di amore che vige al giorno d’oggi è di tipo infantile, egoista e individualizzato, che dura un solo giorno e nega l’idea di compresso o di futuro.
Sia chiaro: non esiste Mr. Perfetto e avere una relazione di coppia non è una necessità antropologica. Tuttavia, non bisogna sentirsi in difetto o a disagio per volere qualcosa di più profondo. Pertanto, se desideriamo intraprendere una relazione amorosa, è bene sapere che la persona interessante non si rivela tale dopo un primo incontro occasionale e asettico. La sintonia, l’interesse, può nascere solo se ci si scopre piano piano, iniziando con l’atto di spogliare la nostra anima ancor prima del nostro corpo. Ciò che ci attrae dell’altra persona è proprio quello che nasconde; è il suo vissuto, la sua storia. Prendere quel caffè è la vera e unica opportunità di gettare le basi per l’intimità e segnare così l’inizio di un nuovo, splendido capitolo da scrivere insieme.
Foto: © Robert Ruggiero, Unsplash
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