Era il lontano 2001. Al Togay comparve un timido, allampanato, angelico ragazzo biondo americano nelle doppie vesti di regista del corto "Something Close To Heaven" e del lungometraggio "The Journey of Jared Price", entrambi su articolati coming out adolescenziali, complicati da madri e potenziali suocere problematiche. Allora se ne parlò soprattutto perché il bel fustello era contesissimo tra i ragazzi – un membro dello staff del festival vantava un ardito approccio corrisposto nei bagni del Teatro Nuovo – ma il suo nome, Dustin Lance Black, allora diceva ben poco. Otto anni dopo lo ritroviamo sul palco del Kodak Theatre di Los Angeles a tenere uno dei più politici discorsi progay nel momento chiave della sua vita, dopo aver ricevuto un meritato Oscar per la sceneggiatura di "Milk".
“Oh mio Dio” ha esordito emozionatissimo. “Non è stato un film facile da fare, fin dall’inizio. Ringrazio Cleve Jones, Anne Kronenberg e tutte le persone del mondo reale che hanno condiviso questa storia con me. Grazie a Gus Van Sant, Sean Penn, Josh Brolin, Emile Hirsch, James Franco, il resto del cast, i produttori e la Focus per aver accettato il rischio di raccontare questa storia di un talento in grado di salvare vite umane. Quando avevo tredici anni, la mia bella mamma e mio padre mi portarono da San Antonio, un paesino conservatore mormone del Texas, in California dove ascoltai la storia di Harvey Milk in grado di darmi la speranza che un giorno avrei potuto vivere la vita apertamente, essere chi sono e un giorno innamorarmi e sposarmi. Voglio ringraziare mia mamma che mi ha sempre amato per quello che sono anche quando c’erano pressioni in senso opposto e se non ci avessero portato via Harvey trent’anni fa, lui vorrebbe che io dicessi a tutti i ragazzi gay e le ragazze lesbiche oppressi dalle Chiese, dai governi e dalle famiglie, che sono delle creature bellissime, meravigliose e di valore. Non importa quello che vi dicono, Dio vi ama e vi prometto che molto presto otterrete eguali diritti legali in questa grande nazione. Grazie a Dio per averci dato Harvey Milk”.
Non da meno è stato il discorso di Sean Penn al suo secondo Oscar, soffiato sul filo di lana al grande loser Mickey Rourke, l’unica vera sorpresa oltre alla vittoria dello sconosciuto giapponese "Departures" come miglior film straniero. Un sardonico Robert De Niro lo ha introdotto ricordandogli: “È incredibile come tu sia riuscito negli anni a farti assegnare così tanti ruoli da eterosessuale!”. Al lunghissimo applauso con standing ovation della platea infiammata e a Dustin Lance Black in lacrime, Sean Penn risponde ironico: “Voi, comunisti, amanti degli omosessuali, carogne! Non me l’aspettavo. Voglio essere molto chiaro su quanto è stato difficile, spesso, per me apprezzarmi ma sono stato toccato dall’apprezzamento degli altri […] È il momento, per chi ha votato per il divieto ai matrimoni gay e lesbici, che riflettano: vergogna, vergogna agli occhi dei vostri nipoti se continuate a pensarla così. Abbiamo bisogno di sostenere uguali diritti per tutti. Sono molto orgoglioso di vivere in una nazione che ha eletto un Presidente elegante e che crea artisti coraggiosi […] Mickey Rourke è tornato alla ribalta ed è mio fratello. Grazie mille!”.
Gaiamente sbarazzino anche il resto della serata condotto da un disinvolto Hugh Jackman: apprezzabile il bacio queer tra Sean Penn e James Franco nella compilation coi momenti più romantici dei film candidati e una simpatica scenetta tra lo stesso Franco e Seth Rogen di "Molto incinta" in cui il primo, seduto placidamente con lui su un divano, gli cinge maliziosamente il braccio intorno al collo mentre Seth si sposta timoroso dopo aver visto due scene di suoi schiocchi gay in "Milk".
Abbastanza compassato il look delle star, con prevalenza di classici abiti bianco latte, neri e grigio perla. La mise migliore? Il blu petrolio con inserti neri di una radiosa Kate Winslet, finalmente oscarizzata alla sesta nomination per l’appassionante "The Reader" del regista gay Stephen Daldry.
Una cerimonia svelta, simpatica, con una raffinata scenografia d’ispirazione italiana firmata da David Rockwell – il pavimento ricalcava la michelangiolesca piazza romana del Campidoglio – capace di infondere un tocco di classe a una serata decisamente riuscita.
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