Fare coming out ogni giorno nella società etero normata

“Bo, è fatta”, pensano moltə di noi una volta fatto coming out. E invece, resta la fatica di doversi dichiarare quotidianamente – anche con chi non vorremmo.

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Coming Out LGBTIAQ
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Se sei LGBTQIA+, la storia del tuo coming out è la più personale che hai da raccontare. Nella vita non ne avrai altre di paragonabili in termini di carica emotiva e narrativa: è la storia che ha il legame più intimo e stretto col tuo vero io.

Ognunə vive il proprio coming out nei modi più diversi. C’è chi ha sofferto le pene dell’inferno per arrivare all’auto-accettazione; c’è chi l’aveva sempre saputo, ma se l’è vista brutta nel raccontarlo a famiglia e amicə; oppure chi sin da giovanissimə l’ha detto a chiunque senza batter ciglio o senza incorrere in alcun pericolo o sconvolgimento. Il mio coming out, per esempio, è stato un lungo travaglio durato circa cinque anni. Si è portato via gran parte della mia adolescenza, ma se tornassi indietro, lo rifarei altre mille volte. La capacità di introspezione e l’onestà sentimentale verso me stesso sviluppate allora vivono tutt’oggi dentro di me e, in tutta sincerità, non ho la più pallida idea di dove mai le avrei trovate, se non avessi dovuto compiere quest’impresa di scavo interiore.

Com’è risaputo, il termine coming out ci arriva dall’inglese to come out of the closet che, tradotto alla lettera, sta per “uscire dall’armadio”. In italiano, diremmo più agevolmente “dichiararsi”, “uscire allo scoperto”. Quest’immagine evoca un senso di luce, di spazi aperti e ariosi dove ci si può muovere in totale libertà. Quando ci dichiariamo e usciamo allo scoperto, la luce ci inonda, respiriamo a pieni polmoni e finalmente il mondo può vederci per quel che siamo.

“Bo, è fatta”, moltə di noi pensano una volta fatto coming out. Ciò che spesso dimentichiamo, però, è che là fuori le cose sono ancora azionate dall’orologio della tradizione. Là fuori, in percentuale, la divisione di genere fra uomo e donna è ancora nettissima e la loro unione fisica e sentimentale pare tuttora l’unica possibile. Non tutte le persone intorno a noi fanno parte di quella bolla di amici o amiche strettissimə, prontə a capirci e accettarci in ogni nostra sfaccettatura. Moltə sono conoscenti, colleghi, amici di amici con cui abbiamo rapporti superficiali, o non ne abbiamo affatto, e ben poco sappiamo su di loro e sulla loro forma mentis.

Fare coming out ogni giorno nella società etero normata - annie spratt n3lGbPpDIJw unsplash - Gay.it

Quegli spazi ariosi che finalmente credevamo di abitare d’un tratto si fanno un’altra volta asfittici. Spesso, infatti, noi persone LGBTQIA+ ci ritroviamo a dover fare coming out ogni giorno. Con questa espressione non intendo dire che, ogni volta che incontriamo qualcunə che non sa di noi, ci rimettiamo a fare i lunghi monologhi che facevamo agli inizi, partendo da Adamo ed Eva per la foga di raccontarci. Fare coming out ogni giorno significa che, su base quotidiana, incontreremo sempre quella persona che “non sa” e a cui, per vari motivi, ci ritroveremo a dirlo forzatamente, con imbarazzo, incertezza o, perché no, anche un pizzico di paura.

Che faccio, glielo dico o no?” ho pensato in centinaia di conversazioni con estranei. Se sgancio la bomba, la persona che ho di fronte sarà corazzata? Abbasserà lo sguardo non appena nominerò il mio ragazzo? Finora mi sta simpatica, ma se invece appena glielo dico inizia a comportarsi male o a fare battute inopportune che me la faranno cadere in disgrazia in mezzo secondo? Alzi la mano chi non si è mai trovatə in questa impasse.

Queste, poi, sono solo quelle situazioni in cui il dubbio se dirlo o meno viene a noi. Che dire invece di tutti quei momenti quotidiani in cui la norma viene data per scontata e sta a noi scegliere se smentirla? Quanti camerieri ho visto stranirsi alla mia richiesta di portare due cucchiaini per il dolce, perché due maschi che condividono un dessert sono ancora un’anomalia. Quante stanze matrimoniali ho prenotato e quante ne ho trovate coi letti separati (perciò corri alla reception a spiegare che io e il ragazzo sulla prenotazione non siamo amici). Il fatto è che là fuori si continua perlopiù a presumere anziché desumere. Se prenoto una stanza per due, e siamo due uomini, si presume in automatico che siamo amici. Ma perché non desumere che invece potremmo essere anche due fratelli, due cugini, due fidanzati – o, nel dubbio, perché non restare in silenzio?

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Questi episodi in cui siamo costrettə a fare coming out per chiarezza d’informazione sono talmente all’ordine del giorno da sembrare quasi impercettibili a chi non li vive in prima persona. Quando li facciamo presenti, il più delle volte ci viene risposto: “Vi lamentate di continuo, ormai vi accettano tutti”. Certo, dati i nostri trascorsi con la vergogna, siamo ipersensibili a quei contesti invalidanti che non ci fanno sentire al sicuro o a nostro agio, ma se certi campanelli d’allarme scattano, è sempre bene fermarsi e riflettere per qualche istante. È come se in noi si azionasse un viscerale meccanismo di diffidenza e protezione che ci allerta rispetto a chi abbiamo di fronte. Se ho perplessità nel dire a un conoscente o a un estraneo che sono gay, probabilmente è perché sotto sotto intuisco che, quand’è in contesti più camerateschi, gli omosessuali li chiama “finocchi” e con me si sta trattenendo per educazione. Personalmente, quando mi capita, io di solito procedo dichiarandomi comunque perché, se la cosa gli fa specie o ribrezzo, la questione irrisolta è sua, ma cerco comunque di tenere a mente quell’indecisione che ho avuto nel dirglielo, per proteggermi nelle future interazioni con lui, o lei (se mai ce ne saranno).

Sono tantissimi gli episodi di coming out quotidiani con dei perfetti estranei, e ogni volta è un piccolo trauma che ci riporta indietro a quando vivevamo rinchiusə nel famoso “armadio” e consegnavamo al mondo una versione artefatta di noi. L’auto-censura è una violenza, spersonalizzarsi per compiacere è una violenza, e lo è altrettanto dover ribadire costantemente chi siamo in contesti in cui sarebbe evitabile farlo. Ritrovarsi a quaranta, cinquant’anni (quando magari sei dichiaratə da venti) a dover fare questi micro-coming out giornalieri non è piacevole. Le persone eterosessuali, ad esempio, non hanno nulla da specificare. Sono libere, senza nessuna identità o sessualità da dichiarare. Le persone LGBTQIA+, per affermarsi, devono ancora definirsi ogni singolo giorno e, tutta questa libertà di movimento, non ce l’hanno. Quante persone etero sarebbero disposte ad auto-negarsi, a rischiare la morte o la galera perché sono andate in vacanza nel paese sbagliato, o a vivere in un costante stato di allerta sociale?

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Essere out and proud – un approccio di base bellissimo ed estremamente motivante – è più che giusto, ma nella vita di ogni giorno è più un mantra da social network che un atteggiamento facile da adottare. Ci sarà sempre quella situazione in cui, per com’è ancora strutturato il pensiero in Italia, tentenneremo per un istante e dubiteremo se farlo sapere apertamente. Quando abbiamo il sentore che chi ci sta di fronte non ci accetterà, ascoltiamoci. Il nostro io più profondo ne sa sempre più di noi. Raccontiamo chi siamo, con orgoglio e fierezza, ma una volta fatto ricordiamo di tutelarci.

Se ti dico che sono gay, e mezzo minuto dopo ti sento dare del “frocio” a chicchessia, per me il nostro rapporto – di qualsiasi natura fosse – d’ora in poi si limiterà a una civile distanza. E se invece non mi va di dirtelo, non fa niente: non sto tradendo nessunə, né tantomeno la promessa fatta a me stessə tempo fa, quando finalmente sono uscitə allo scoperto. Fare coming out ogni giorno è una fatica immane e, con te che presumi la norma, io oggi non ho tempo o energie da sprecare.

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