Renzo Rubino e io ci siamo sentiti nel pomeriggio dell’Antiviglia. Io da Milano – una Milano stranissima: semi-deserta e maggiatica – lui, invece, in viaggio su un furgoncino, da Monterotondo a Parigi. La rete telefonica non ci supporta e la linea cade più volte. Ci chiamiamo e ci richiamiamo, prima con un telefono e poi con un altro. Ci aspettiamo, ci inseguiamo. Nel frattempo, qui cade il tramonto e Renzo arriva a destinazione (prima, però, si perde in un bosco). Mentre ci congediamo, penso che ho deciso di intervistarlo proprio per questo motivo: perché, da sempre, vedo in lui un musico errabondo, un trovatore d’altri tempi, un cantastorie inesausto. Mi piace il suo spirito zingaresco, mi piace la sua voce libera.
Lo scorso 22 dicembre è uscito il suo nuovo singolo, Bisogna festeggiare, che anticipa un album di inediti e che arriva a dieci anni dal suo debutto sanremese. È il 2013, infatti, quando Rubino esordisce all’Ariston nelle Nuove Proposte con Il postino (amami uomo) , una canzone dall’andamento quasi operistico che racconta un’esperienza omoerotica. Si classifica al terzo posto e tornerà a Sanremo anche l’anno successivo e poi ancora nel 2018. La sua ricerca, intanto, non si ferma e lui viaggia su e giù per l’Europa alla ricerca del suo suono. Ogni estate, da qualche anno, dirige Porto Rubino, la kermesse che porta la musica nei porti pugliesi (gioco di parole voluto). Con Porto il Natale, invece, percorre la penisola ed entra nelle case d’Italia, si siede al pianoforte, in salotto, e suona, facendo della musica pura condivisione.
Di seguito la nostra intervista.
È uscito da poche ore il tuo ultimo singolo, Bisogna festeggiare. Un inno gioioso di accettazione, un invito ad abbracciare ciò che abbiamo e soprattutto ciò che siamo. In un mondo di guerre e di fiamme è ancora possibile festeggiare?
È un momento molto difficile per l’umanità sotto diversi punti di vista. Però credo che ci sia ancora qualcosa da festeggiare, per esempio dovremmo sempre celebrare i momenti in cui riusciamo a essere noi stessi, in cui riusciamo a esprimere le nostre idee e a vivere il nostro corpo in maniera libera. Attraverso l’armonia con sé stessi si può far bene al mondo circostante. Il periodo è difficile, sì, ma dobbiamo partire da noi: liberarci, provare a essere felici. Nel pezzo canto: «viva gli sbalzi di umore», fanno parte di me. Siamo belli proprio perché siamo unici. È un brindisi a noi stessi, al nostro animo più intimo.
https://open.spotify.com/intl-it/track/26Pkc7RJXGI8hOQevIFEg8?si=7018802771664e23
E proprio la giocosità del festeggiamento è una delle cifre del tuo fare musica: con Porto Rubino accendi la festa della musica anche dove spesso fa più fatica ad arrivare.
Mi piace fare cose inusuali, da sempre. Porto Rubino è nato nel periodo in cui la politica parlava di chiusura dei porti. Mi dava fastidio e ho voluto capire se la gente del porto fosse davvero così chiusa. Ci ho organizzato un festival musicale, che è diventato meticcio, che mescola generi differenti e artisti molto distanti tra loro, sia nell’attitudine sia nell’origine.
Con Porto il Natale, invece, entri nelle case d’Italia e ti metti a suonare.
È un progetto che nasce da un’esigenza personale, dal desiderio di vivere il calore degli altri in un periodo dell’anno molto particolare. Ogni volta che suono è una cosa diversa, ogni casa mi trasmette emozioni diverse.
Cos’è una casa per te?
I miei due asinelli, le mie gatte, le colline della valle d’Itria, andare a trovare nonna e portarle un dolcino la domenica mattina. Casa è un posto che mi fa sentire al sicuro.
A settembre è uscita La Madonna della ninna nanna, una canzone che torna come molti altri tuoi pezzi sul tema del sacro. Cos’è il sacro?
Non posso considerare il sacro senza considerare il profano. Da ragazzino, suonavo la sera in un night club e la mattina in chiesa, durante la messa.
Inferno e paradiso.
Esatto. Mi capitava, spesso, di trovare il sacro nell’inferno e il profano in paradiso. Mi affascina l’umanità tutta, la spiritualità della gente.
In cosa credi?
Io non so se esiste qualcosa, non so cosa ci sia, se c’è qualcosa oppure no. Credo nel bene e nella sacralità dei rapporti umani. Credo, in un certo senso, nelle energie, e la musica di fatto è un’energia. È un’energia pulita, sovrannaturale.
In La Madonna della ninna nanna canti «trasformiamo in sacro tutto il sesso»: eccoli qui sacro e profano!
Anche il sesso è sacro, alla fine.
https://open.spotify.com/intl-it/track/1CFQHrPdBfLd75tP6CyeRD?si=99e5820305134e7b
Cos’è, per te, il profano?
Ha a che fare con il bigottismo: per molti, per esempio, vivere la propria sessualità liberamente è considerato ancora oggi un tabù. È sempre volgare, poi, questo bigottismo. Ci vuole catalogare, ci vuole omologare. Una certa politica è bigotta e quindi profana.
Sta trionfando il profano, dunque.
Siamo schiacciati, si vuole dare ordine, si vuole dare disciplina.
Che paura!
Sì, dovremmo sostituire questa ricerca di ordine e di disciplina con la ricerca del rispetto e dei buoni sentimenti. Non voglio apparire come un figlio dei fiori, ma credo nel bene che viene generato da noi stessi. E credo nell’importanza della paura e della fragilità. Dovremmo parlare dei nostri lati fragili con libertà e smetterla di seguire la dottrina imposta.
Torniamo agli esordi: son passati più di dieci anni dal debutto sanremese. Cosa è cambiato?
Sono cambiato tanto. Ero un bambinone, vivevo il mondo dello spettacolo con grande sentimento, sia i picchi sia i momenti di down. All’inizio è stato tutto divertente, perché era tutto un regalo. Poi mi sono reso conto che quando ero un bambino volevo fare questo lavoro perché volevo fare i dischi e i concerti, non perché volevo essere super famoso. Nella realtà dei fatti agli artisti viene chiesto continuamente di omologarsi. Io non lo so fare. Scrivere una canzone, per me, è come una seduta di psicoterapia con me stesso. Non posso trasformare la mia verità in una hit.
È questa consapevolezza che ti ha cambiato?
Anche, sì. Con il Covid è cambiato tutto: adesso sono più maturo, più deciso. So quello che voglio fare. Dico dei sì, ma dico anche tanti no. Ho capito a chi parla la mia musica, e so che non parla a tutti quanti. Ho accettato chi sono.
Sai che questa cosa si percepisce molto nella tua musica? C’è una giocosità in quello che fai che trovo solo in te, in Tosca e in Capossela.
Due artisti che amo profondamente e a cui voglio bene. Sono due artisti estremamente liberi, loro.
È proprio in questo che vedo una somiglianza, avete tutti uno spirito zingaresco che vi rende profondamente liberi.
Mi piace questo paragone.
A proposito di sonorità giocose, di fiati e di bande, di ottoni e di percussioni, in che direzione andrà l’album a cui stai lavorando?
L’album è nato l’anno scorso, in questo periodo. Ho deciso di rimettere la musica al centro: mi sono fermato e ho inciso l’album. Prima, però, mi sono messo a scrivere e prima ancora a vivere.
Vivere, cioè?
Ho ripreso a vagare senza meta. Fare esperienze, viaggiare, scrivere. L’album è super festoso, tutto a modo mio. L’ho registrato con la banda del paese. È un album antico, popolare e folkloristico, un album di danze e di piazze. È un disco felice.
Foto di Raoul Ventura
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