Anni or sono, Christian De Sica pubblicava il retrò “Sono solo Tre Parole”, in cui si dilettava con canzonette anni trenta, quelle, per farla breve, che canticchiava il padre Vittorio quando era star delle pellicole dei Telefoni Bianchi. Non un successo ma un discreto prodotto autocelebrativo. In tempi più recenti, la “cicana” del Bronx, Jennifer Lopez, ha deliziato le orecchie e, soprattutto, gli occhi dei fan con una sfilza di album ibridi e di successo che seguivano la scia pop/dance con spruzzate RnB inaugurata da Madonna: J.Lo si è rifatta con la musica di alcuni insuccessi cinematografici.
In Italia, anche Violante Placido, in arte Viola, ha tentato la strada della musica pop, con un inevitabile cd. Aria leggera, sound ritmato ed elementare e nessuno scossone nel mondo della musica, né tantomeno nel mercato (cosa fondamentale).
Se esistesse un premio per la migliore “interpretazione” canora per merito e per gusto dovrebbe andare ad una attrice in particolare, anomala e affascinante: Charlotte Gainsbourg. Figlia di un mostro come Serge Gainsbourg, uno dei massimi esponenti della musica leggera francese, la giovane Charlotte ha fatto davvero le cose in grande, quasi a voler dimostrare che l’arte la sa fare davvero e non ne è solo la “figlia di”. 5:55 è uno di quei rari dischi che si ascoltano in continuazione, senza il minimo accenno di noia ma soprattutto da parte dell’animo. Ed è un disco dell’anima questo della Gainsbourg, non solo quella personale ma anche quella artistica, più propriamente cinematografica, che l’ha resa musa dei registi europei più controversi e raffinati.
Lontani gli echi pop che hanno fatto gridare allo scandalo, quando incise assieme al padre Serge il perverso singolo “Lemon Incest”, questo nuovo album è un perfetto esempio di lounge sperimentale e raffinato che bilancia in maniera sapiente le strumentazioni, i testi e infine l’impianto vocale. La Gainsbourg non ha l’estensione e la potenza vocale delle cantanti pop più di grido ma riesce a miscelare l’intensità delle proprie interpretazioni con una manciata di testi da 10 e lode.
Non si avvertono le influenza eccessivamente melodiose del padre, anche perché il disco è quasi del tutto un “english hybrid”…
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Non si avvertono le influenza eccessivamente melodiose del padre, anche perché il disco è quasi del tutto un “english hybrid”, ad eccezione della track numero 4 Tel que tu es, l’unica delle 10 tracce cantata in francese. Forse “cantare” non è la parola adatta. Charlotte non canta ma vive l’esperienza musicale, accende di luce canzoni che puntano al cinema e ai suoi miti, impreziosendole dei suoi sussurri, delle sue preghiere. Partiamo con The song that we sing, una ballata gotica e incalzante, puntellata da un quartetto d’archi e dal pianoforte, in cui l’artista si spoglia delle sue paure e dei suoi incubi di taglio Lynchiano. Donne che corrono, riviste senza immagini e parole, bambini che piangono, c’è tutto un raffinato cotè visuale che intreccia le sperimentazioni di Maia Deren e le foto di Diane Arbus. Everything I cannot see è il brano più importante, quello che rivela il vero spessore artistico e musicale. Si apre con un giro di chitarra e poi con un pianoforte che riecheggia le chanson tipiche degli anni 70. Il pezzo cresce incalzando esplodendo in una ballata che fa venire alla mente la Tori Amos più ispirata, quella di Playboy Mommy ma con un gusto per l’atmosfera notevolmente retrò. Qui si parla d’amore in maniera leggera, si invoca l’uomo amato che diviene sole e cielo.
5:55 è una preghiera fatta al mattino, quando il sonno è oramai svanito e si avverte solo la voglia di ricominciare a vivere col nuovo sole. The Operation è invece una virata nella musica elettronica degli anni ottanta, quella vicina ai Duran Duran, con un incalzante sottofondo di basso. La voglia di erotismo pulsa viva dal momento che “…l’orgasmo è come una operazione e ho voglia di sezionarti tutto…”. Nocturnal intermission un’altra ballata di atmosfera retrò su due amanti; sofferta e dolente è Beauty Mark, brano sulla solitudine; godibili risultano le introspettive Jamais e Little Monster.
Ad aiutare la Gainsbourg c’è una squadra di professionisti impressionante:la produzione è curata da Nigel Godrich dei Radiohead, i testi scritti da Jarvis Cocker (Pulp) e Neil Hannon (The Divine Comedy) assieme alla Gainsbourg e l’arrangiamento degli archi invece è opera di David Campbell, padre di Beck.
Insomma un lavoro da 10 e lode.
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di Gabriele Gainsbourg
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