“Duino” inaugura il Lovers 2024, recensione. L’indimenticato e irripetibile primo amore

Un racconto di formazione metacinematografico, basato su una storia vera, ha inaugurato la 39esima edizione del Lovers Film Festival di Torino.

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Duino
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Ha preso vita ieri sera al Cinema Massimo di Torino la 39esima edizione del Lovers Film Festival, ovvero il più antico Festival cinematografico LGBTQIA+ d’Europa, con la premiere di Duino di Juan Pablo Di Pace, 44enne attore argentino un tempo attore in Fisica o chimica e ora regista di un’opera quasi interamente ambientata in Italia, in provincia di Trieste, all’interno del Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico, scuola internazionale che riunisce studenti in arrivo da tutto il mondo con lo scopo di promuovere la pace e la cooperazione.

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Lo stesso Juan Pablo Di Pace, gay dichiarato dal 2019, interpreta Matias, regista argentino quarantenne alle prese con un film incompiuto ispirato al suo primo amore: ovvero Alexander (Oscar Morgan), un adolescente svedese conosciuto proprio a Duino a fine anni Novanta. Quando Alexander viene improvvisamente espulso, Matias (Santiago Madrussan) deve districarsi tra emozioni non dichiarate al mondo e a sé stesso, perché c’è una sacralità nell’innamorarsi per la prima volta: un evento spesso totalizzante che non possiamo più rivivere una volta terminato. Oltre 20 anni dopo quell’indimenticabile estate di formazione sentimentale, Matias ha deciso di far riemergere quei ricordi d’amore, quelle emozioni mai del tutto archiviate, realizzando il suo film più intimo e personale.

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Un racconto di formazione metacinematografico, basato su una storia vera. Duino porta in sala il primo amore, la sacralità nell’innamorarsi per la prima volta, quell’evento totalizzante che una volta finito difficilmente concede il bis. Juan Pablo Di Pace romanticizza i propri ricordi, sfocati dopo decenni ma comunque ancora tangibili, costruendo un film nel film, con la sua finzione cinematografica che incontra la propria memoria.

Matias, catapultato dall’Argentina a Duino, è un’appassionato di fotografia e di regia. Appena arrivato, timido e insicuro, viene travolto dall’esuberanza di Alexander, ricco ragazzo svedese con cui instaura da subito un rapporto di profonda amicizia. Che si trasforma quasi immediatamente in primo amore. Mai fisicamente consumato, mai realmente dichiarato, e per questo traumatico, tanto nel suo dolore quanto nella sua bellezza. Utilizzando lo stratagemma di una vecchia videocamera con filmati amatoriali Hi8, girati a Duino dal suo alter-ego adolescenziale, Juan Pablo Di Pace dà un’estetica precisa alla propria pellicola, che alterna un presente realistico e un passato da sogno, perché segnato da una memoria subdola e imprecisa, che tende inesorabilmente a romanticizzare i ricordi, accecando il cammino di tutti noi verso l’amore nel presente.

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Facendo leva sulle differenze linguistiche, perché in Duino si parla inglese, spagnolo, italiano e svedese, il regista dipinge le differenti sfumature d’amore, sottolineando come un “Ti amo” in italiano abbia altro spessore, altra profondità, rispetto ad un “I love you” inglese. Sentimenti da dichiarare con un solo battito di ciglia, con una carezza a lungo sognata ma mai diventata realtà, in un’epoca, siamo alla fine degli anni ’90, in cui l’omosessualità faceva ancora paura, perché poco o niente raccontata, rappresentata, e il più delle volte diffamata.

Con un bellissimo intermezzo natalizio quasi interamente dedicato ai genitori e alle famiglie dei due giovani protagonisti, Juan Pablo Di Pace colpisce dritto al cuore, pennellando i lineamenti di due padri apparentemente vecchio stampo e di due madri che hanno colto la vera natura di quell’amicizia tra ragazzi, che nasconde ben altro. Un’omosessualità, quella di Matias, segnata dalla paura di suo padre e di sua madre, consapevoli di aver sbagliato quando era poco più che un bambino, e ora pronti a perdonarsi, chiedendogli scusa per il dolore causato, per averlo spedito da uno psicologo solo e soltanto perché amava giocare con le bambole e non con le macchinine. Una precoce ‘terapia di conversione’ che l’aveva sì portato ad abbandonare le Barbie, spegnendolo però del tutto, facendogli perdere il sorriso, l’energia. Dinanzi a quelle lacrime, seppur di dolore, Matias si è ora finalmente risvegliato, riappropriato di sè, perché per la prima volta innamoratosi. Di un ragazzo. Con la benedizione di quei due genitori che hanno fatto pace con la propria omofobia.

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Se in Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino è il padre del giovane protagonista a concedersi uno straordinario monologo, qui è la mamma di Matias, in auto, al cospetto di un figlio in lacrime perché distrutto da un primo amore perduto, a diventare punto di ripartenza e di accettazione. Il giovane Matias, nel presente interpretato dallo stesso regista, ha bisogno di ricostruire la propria anima. Per riuscirci deve ritrovare quel passato a lungo mitizzato, realizzando non solo un film ma chiudendo con esso, abbracciandolo nuovamente dopo oltre 20 anni di lontananza, rivitalizzando ricordi, dando forma a quella carezza mai espressa e con la consapevolezza assoluta che il primo amore non si scorda mai, che potrebbe essere autodistruttivo cercarlo ugualmente altrove perché mai potrà ripetersi in quella medesima forma.  Ma in forme leggermente diverse e analogamente straordinarie.

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