Miluzca è nata in Perù e ha peregrinato per molti paesi dell’America Latina e dell’Europa, prima di trovare dimora in Italia, dove ha deciso di aprire una sua attività imprenditoriale. Ci racconta la sua storia.
«Sin dalla tenera età ho subito molti maltrattamenti. Mio padre mi picchiava e mi diceva che io ero un uomo. Io prendevo i trucchi di mia madre e quando mi beccavano, mio padre mi picchiava dicendomi che gli uomini non fanno quelle cose da donne. Io però penso che un bambino non capisce ancora queste cose, per i bambini è un comportamento automatico, senti che il corpo non è connesso con quello che ti dicono di essere».
«Mi obbligavano a fare cose maschili come il calcetto e il karate. Io ero più interessata alle bambole di mia sorella e alla pallavolo. Mi dicevano che la pallavolo è uno sport da donna. Il nome che ho scelto infatti, è quello di una giocatrice di pallavolo. Intorno ai quattordici anni sono andata via di casa. Stavo sola al mondo. A volte ci penso: come ho potuto andare via e stare in balìa da un lato degli omofobi e dall’altro dei pedofili?»
«All’epoca quando si vedeva una persona transgender o un uomo gay la gente ti urlava dalla finestra insulti gratuiti e ti gettava i sassi. Questa era la situazione nel piccolo paese dove sono nata, così mi sono spostata nella capitale, Lima. Avevo quindici anni e lavavo i vestiti di altra gente, a volte lavoravo in cucina. Ho dovuto lavorare, anche se mi sarebbe piaciuto frequentare la scuola e l’università. Ma mi dicevano che una persona come me avrebbe disturbato gli altri studenti. Parliamo degli anni ’90».
Hai potuto fare una cura ormonale in Perù?
«No, lì non c’era diritto a niente. Lì le persone LGBT non hanno diritto a nulla, ancora adesso. Sono dovuta andare sulla strada e prostituirmi. Ho sofferto altra violenza, quella della polizia».
«Quindi non potevo nemmeno lamentarmi della violenza omofoba e transfobica, perché da chi andavo, se la polizia era altrettanto violenta?»
«Poi sono andata Buenos Aires. Nei primi anni novanta non c’era alcuna tutela per le persone trans, in Argentina. Se una persona transgender non sembrava perfettamente una donna cisgender e un poliziotto se ne accorgeva, ti sbatteva in galera per ventiquattro ore. Paradossalmente la prostituzione non era vietata, quindi non ci rinchidevano in galera per questo, ma perché c’era un’assurda legge per cui non ti potevi vestire come una persona del genere opposto».
Ma torniamo a te. Non ti sei fermata in Argentina, hai continuato il tuo viaggio.
«Sì. Sono andata anche in Brasile e anche lì era molto violento, ma non mi va di parlarne. È difficile per me tornare su questi ricordi. Poi ho provato ad entrare in Germania ma non me lo hanno permesso e alla fine sono arrivata finalmente in Italia».
Ti trovi bene qui in Italia?
«Certamente è meglio di altri paesi in cui sono stata, ma le persone transgender subiscono delle discriminazioni anche qui. È difficile per noi trovare un lavoro diverso dalla prostituzione…».
È per questo che tu stai provando ad aprire una tua azienda, per essere imprenditrice di te stessa. Di cosa ti occupi?
«Io creo abiti. Al momento lo faccio per le mie amiche. Li faccio su misura, pezzi unici, in base alle loro esigenze. Il mio sogno è aprire una mia azienda di moda».
C’è qualcosa che vuoi dire ai nostri lettori?
«La vita è sempre bella, nonostante le sue problematiche. Vedere un nuovo giorno è sempre bellissimo».