Ci sono due modi per vedere il nuovo, atteso film di Sofia Coppola Maria Antonietta con una brava Kirsten Dunst nel ruolo della regale protagonista (esce il 17 novembre e sarà presentato in anteprima lunedì 13 al Torino Film Festival).
Quello sbagliato – e alla prima visione ci sono cascato anch’io, lo ammetto – è di considerarlo un rigoroso film storico che vuol far luce su un periodo chiave della storia francese: in tal caso non si può non storcere il naso davanti a una regina-bambina che sembra un’adolescente milionaria di Beverly Hills mentre la Rivoluzione Francese viene sacrificata nei cinque minuti del finale e i protagonisti sono quanto di meno ‘filologicamente corretto’ ci si possa aspettare, da una Madame du Barry mignottesca come una burina laziale (un’Asia Argento sopra le righe) a un Luigi XVI che parla con accento texano – come verrà doppiato? – in odor di impotenza (nella realtà aveva problemi di fimosi) e riottoso come un ragazzotto insulso.
Il modo giusto è invece lasciarsi andare a quello che è il vero spirito del film, ossia un vortice di caleidoscopici colori squillanti, elaborati costumi di Milena Canonero e stupefacenti scenografie – Versailles c’è ed è quella vera – ed entrare così nelle intenzioni della regista, ovvero immergersi nei sogni e le contraddizioni di un personaggio che in realtà è fuori dal tempo e potrebbe essere ovunque, una non banale psicologia femminile che rientra nei ritratti perturbanti tipici della regista.
Maria Antonietta è una vergine questa volta non suicida ma amante della vita con ingenua schiettezza, entrata senza colpe nei vorticosi giri di valzer…
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Maria Antonietta è una vergine questa volta non suicida ma amante della vita con ingenua schiettezza, entrata senza colpe nei vorticosi giri di valzer di una corte lussuosa e sprecona, viziata come può esserlo un’aristocratica del dollaro ai giorni nostri (Paris Hilton? Nicole Ritchie?). E la contemporaneità stridente che emerge in un film come Maria Antonietta dà un senso alle provocazioni più smaccate quali far comparire un paio di fiammanti All Star in mezzo alla marea di decoratissime scarpette in dotazione alla sovrana o sottolineare la pomposità del contesto con scatenate ballate pop quali Hong Kong Garden di Siouxsie and the Banshees o l’elegantemente sublime Plainsong dei Cure al momento dell’incoronazione (ma tra Rameau e Vivaldi spicca anche la sorprendente neoromantica I Want Candy dei Bow Wow Wow).
E in questo vitalistico bailamme di sontuosi décors, crinoline sbuffanti e luculliane tavole imbandite con colossali piramidi di leccornie, la protagonista Kirsten Dunst gioca su un registro giustamente sbarazzino e un po’ spaesato, rendendo con solerzia l’impiccio della regina intrappolata in una Corte che le va troppo stretta al punto da cercare una impossibile fuga d’amore con un soldatuccio olandese diventando poi, inevitabilmente, il capro espiatorio del popolo allo stremo (ma la celebre boutade sulla mancanza di pane «…E allora dategli delle brioches», storicamente non attendibile, qui passa sotto silenzio).
Nell’élite snob dell’aristocratica Versailles spicca infine il coiffeur gay che le crea improbabili impalcature himalayane e diventa subito oggetto di pettegolezzi da parte delle damazze più impertinenti: «Lo sai? Gli piacciono gli uomini!».
Un film che farà impazzire il pubblico più giovane, non c’è dubbio, ma potrà divertire chiunque se lo si gusta come puro divertissement tenendo presente la necessità di mettere da parte a priori il rigore e il realismo di Sua Maestà la Storia.
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