Fare coming out con i propri genitori è uno step che porta con sé ansia, panico, e liberazione (non per forza in quest’ordine).
Significa scoperchiare la facciata, smussare le vulnerabilità, e interfacciarsi davanti le rispettive paure con la promessa di superarle. Per un genitore è l’occasione per mettere da parte le aspettative e smontare le false credenze delle generazioni passate, con un primo grande passo fuori dalla comfort zone.
Quando Luca ha fatto coming out con sua madre Cinzia, lei non ci ha dormito la notte.
Oggi è presidente di Agedo Milano ( acronimo di “Associazione Genitori di Omosessuali”), ODV che sin dal 1992 crea uno spazio di scambi, dialogo, e sensibilizzazione per genitori, parenti, e amici di persone LGBTQIA+ (qui potete leggere la lettera scritta in vista del Pride Month).
Quello di Cinzia Valentini è diventato un percorso di (ri) scoperta, dove l’amore incondizionato per un figlio è andato di pari passo con la conoscenza di una realtà che per molti genitori è ancora sconosciuta: tra chi ancora la definisce una moda, all’assenza di tutela nelle istituzioni pubbliche (a partire dalla scuola), fino al mondo dello sport che diventa sempre ostile per le persone transgender (proprio lo scorso Sabato 17 Giugno, Agedo ha tenuto un convegno per riflettere insieme a dei professionisti dello sport sulla consapevolezza del corpo e l’urgenza di ambienti sportivi sempre più trans-inclusivi).
Se la costituzione all’articolo 3 dice che tutti gli esseri umani hanno stessi diritti, i nostri figli ce l’hanno sempre meno: quello che non conosci, non solo ti spaventa ma viene contaminato da quei retaggi culturali e luoghi comuni che demonizzano anche la cosa più naturale del mondo.
Ma attraverso Agedo, Cinzia e altri genitori non solo hanno avuto modo di osservarlo attraverso una prospettiva diversa, ma diventare mezzo di connessione e supporto reciproco.
Ci ha raccontato la sua storia, prima di conoscerne molte altre.
Mi racconti il momento in cui Luca ha fatto coming out?
È successo cinque anni fa, quando aveva quindici anni. Lo ricordo come il giorno del suo coraggio, perché studiò ogni sua mossa. Ce lo disse non a caso proprio l’11 Ottobre (Giornata internazionale del coming out). Ci ha chiamati in camera sua e si è tolto il dente velocemente, con la voce che tremava. Siccome non andava così bene a scuola, ho pensato avesse preso un’altra nota, ma lui ci ha detto: mamma, papà, sono gay. Quella frase mi continuò a rimbombare nel cervello in continuazione. Non sospettavo nulla perché non c’era nulla da sospettare: mi aveva fatto comprare qualche bambola, a volte era interessato ai miei trucchi, ma erano tutti stereotipi. Ha avuto anche una fidanzata che mi ha fatto accantonare ogni dubbi. Ma ricordo benissimo la sua serenità: aveva già lavorato molto su di sé. Ma in quel momento io portavo con me un macigno enorme.
Qual è stata la prima reazione?
Scioccata. Oggi mi sento una stupida a pensarci, ma all’epoca ero disorientata, confusa, e piansi per più notti. Immaginavo gli insulti, la violenza, gli amici che l’avrebbero abbandonato. Forse anche per eccesso di protezione. Mi pento di non essere stata capace di abbracciarlo in quel momento. Ma lui capì perfettamente la mia reazione, anche se non dissi nulla.
Il vostro rapporto è cambiato dopo? E se sì, come si è evoluto?
Io ho adottato Luca quando aveva venti giorni, e sin da subito (anche su consiglio degli psicologi) volevo che lui sapesse tutto. Abbiamo convissuto in un contesto pieno di sincerità, e credo abbia maturato questa voglia di raccontarci tutto con la stessa limpidezza. Quando si è reso conto di essere anche gay penso ce l’ha voluto dire molto naturalmente e senza nascondersi. Per me fu all’epoca il giorno più brutto della mia vita, ma ci ho lavorato tantissimo. Volevo condividere le sue emozioni, cosa gli succedeva, conoscere i suoi ostacoli. Il nostro rapporto si è aperto ancora di più, e allo stesso modo, io mi sono aperta a un mondo che fino ad allora non conoscevo.
Com’è cambiata, a tal proposito, la tua conoscenza del mondo LGBTQIA+, e come sei arrivata all’associazione Agedo?
Io credo che il coming out del proprio figlio obblighi un genitore a fare un viaggio alla scoperta di sé.
Per me è stato un percorso che è durato mesi di consapevolezza, e la mia vita sicuramente ne ha risentito: sul lavoro ero completamente deconcentrata e ho riflettuto in primis da sola. Avevo bisogno di trovare consapevolezza prima di tutto dentro di me.
Ma attraverso piccole frasi e confronti, piano piano sono andata avanti.
Ero piena (anche inconsapevolmente) di zavorre, pregiudizi, e stereotipi che non mi rassicuravano. Camminavo per la mia strada con un muro invisibile a cui non mi accostavo mai, e proprio per questo non avevo la sensazione delle persone che si scontrano tutti i giorni con questo muro e si facevano male.
Mi ritrovai a rispondere a degli stereotipi figli di una cultura completamente sbagliata. Perché sognavo il solito cliché di mio figlio fidanzato con una ragazza, con cui sposarsi e fare dei figli, senza pormi alternative.
Agedo, in questo, mi ha aiutato tantissimo. Lì ho incontrato genitori fantastici, che non hanno fatto alto che prendere il mio disagio per mano e raccontarmi la loro storia. In quel contesto senti che qualcun altro ce l’ha fatta prima di te, e ti rendi conto che sì, piano piano puoi farcela anche tu. Capisci che puoi lottare oggi per i diritti dei tuoi figli e di tutta la comunità.
Cosa consiglieresti a quei genitori che si sentono spaventati e preoccupati come te cinque anni fa?
Direi loro di mettersi in cammino. Di non far finta di non vedere. Di iniziare a farsi domande, cercare di comprendere, confrontarsi con altri genitori, e fare questo viaggio insieme ai propri figli. Può essere un viaggio breve o lungo – ma mi auguro sia sempre più breve. In Agedo c’è questo slogan: “I figli della comunità LGBTQIA+ devono essere parte del mondo, e non un mondo a parte”. A questi genitori dicamo: create dei ponti di comunicazione, non trincee.
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