Una settimana di dolore, di lutto nazionale, di passione, di musica e lacrime, sorrisi e malinconici ricordi vintage. Una settimana inimmaginabile, fino a pochi giorni or sono, perché arrivata senza preavviso alcuno, come un fulmine a ciel sereno, lasciando tutti sgomenti. La morte di Raffaella Carrà ha colpito l’Italia intera, perché lei sì, era davvero la più amata di tutte e tutti. Per salutarla degnamente, in pieno luglio e con un’afa dai caldi toni africani, Roma l’ha pianta, ricordata e ringraziata per tre giorni, al termine di una Dolorosa Via che ha visto il suo feretro tagliare in due la Capitale, toccando i punti salienti di una carriera ultra-decennale quasi interamente passata in Rai. Raffaella era una delle gambe del cavallo di Viale Mazzini. La più snella, snodata, talentuosa, irrefrenabile, sensuale. Una colonna dell’azienda, era la quintessenza della donna di spettacolo, in grado di cantare, ballare, recitare, presentare, intervistare, dirigere, organizzare, coreografare.
Roma Nord, dove ha vissuto per 40 anni, l’ha applaudita commossa, con centinaia di persone in attesa, tappa Rai dopo tappa Rai, come se fossero comparse di una via crucis laica pensata e realizzata per beatificare colei che ha educato italiani e non, al rispetto nei confronti dell’altro, qualunque diversità eventuale avessero, all’amore per il bello, il talento, lo spettacolo, la cultura. Televisiva, teatrale, cinematografica, musicale. Questa tre giorni estiva di lacrime e ammirazione ha riportato l’occhio di bue al centro di un mito dai lineamenti universalmente riconosciuti. Per decenni è bastato disegnare un caschetto biondo, da Trieste a Machu Picchu, per sentirsi rispondere “Raffaella!“.
Negli anni ’70 ha travolto la Spagna post-franchista mostrando ad un popolo intero schegge impazzite di libertà sessuale fino a quel momento inimmaginabili. E così ha fatto in tutto il Sud America, abbattendo grigi ricordi di sanguinosi regimi. Dove c’era il bianco e nero arrivava Raffaella ed esplodeva il colore. Ha indicato la strada a Paesi interi, mutando società con la forza di un sorriso, un passo di danza, una canzone popolare, un ombelico, una risata. Quella memorabile risata. “Raffaella non è una donna, è uno stile di vita“, disse di lei Pedro Almodovar, facendo centro. Perché Raffaella era ultraterrena, eternamente Carrà. Impensabile immaginare la sua morte, ipotizzare il lutto, la complessa elaborazione. Nel 1969 qualcosa di simile accadde con Judy Garland, la cui dipartita traumatizzò la comunità LGBT d’America, a tal punto da contribuire, leggenda narra, alla nascita dei moti di Stonewall, appena 6 giorni dopo. Perché all’incommensurabile dolore della perdita dell’icona tra le icone si aggiunse la rabbia per l’ennesimo sopruso subito. Il resto è Storia. Contemporanea, del movimento, dei diritti civili.
Oltre l’Arcobaleno Raffaella avrà un spazio tutto suo, pieno di lustrini e storie abbracciate, raccontate, cercate, vissute, in decenni di trasmissioni, gesti benefici, parole grondanti rispetto, amore, semplicità. Parole rivolte ad un’intera comunità, la nostra, che si è sempre ritrovata nei suoi spettacoli, nelle sue canzoni, nei suoi look, nel suo essere straordinariamente e orgogliosamente camp, ma al tempo stesso brillante, impeccabile, bravissima, bellissima. Ancor prima che l’essere ‘icona gay’ diventasse un traguardo da molti agognato, Raffaella lo era già di diritto, a sua insaputa. Lo era in modo naturale, le veniva da dentro, con una lucentezza che disarmava per quanto abbagliante. Generazioni diverse hanno imparato ad amarla, ugualmente, ritrovandosi in quell’ampio sorriso, nella riconoscibile risata, negli abiti tutti eccessi e paillettes, presto diventati iconici per drag queen ad ogni latitudine.
Raffaella era gioia, vitalità, gaiezza, era la libertà fatta entertainment. In migliaia sotto il sole cocente di un luglio infernale si sono accalcati all’ombra di Marc’Aurelio, in Campidoglio, in pellegrinaggio per un ultimo saluto, una preghiera, un ricordo. Televisioni da tutto il mondo sono arrivate su uno dei Sette Colli capitolini per celebrarne la grandezza, con turisti sudamericani e spagnoli accorsi in fretta e furia da ogni angolo della città per ringraziarla, per cantare un’ultima volta insieme a lei, cedere a due passi di danza, lasciarle un cimelio, piangerla. Un rito commemorativo presto tramutatosi in rito collettivo, come se l’ampia, gigantesca platea cresciuta da e con Raffaella si fosse messa d’accordo per ritrovarsi sull’infinita scalinata della Basilica di Santa Maria in Aracoeli, dove leggenda narra l’imperatore Augusto vide una donna con un bambino in braccio, che a detta della sibilla non era altro che Maria, madre di Gesù.
E dove se non qui per l’ultimo saluto a Santa Raffaella, inconsapevole madre di un’intera comunità che non smetterà mai di dirle grazie.
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Ma sto inutile pachiderma perchè non si fa quattro salti in padella di caxxi propi? Dovrebbe solo inchinarsi di fronte alla mitica Carrà, viscido senz'anima.