Crediamo di conoscerla, di sapere tutto di quello che ha fatto e che ha detto, persino di ciò che è stata come artista e come donna, anzi come “creatura”, per usare una parola che le è stata molto cara. Pensiamo, in un certo senso, che ci appartenga nel corpo e nella voce. Eppure Raffaella Carrà è ancora un segreto da risolvere, un mistero che non sbroglieremo mai. Nasce a Bologna nel giugno del quarantatré, sotto il segno dei Pesci (e l’ascendente in Bilancia): gli astri la consegnano da subito a un destino di doppiezza, che lei poi trasformerà addirittura in moltitudine. Sì, perché Carrà è stata tante cose, tutte diverse: la più amata e quella più contestata, un’attrice considerata mediocre e la performer migliore del mondo, è stata una torera e un’anchorwoman, una mistica e una svergognata, una signorina buonasera e una traditrice della patria, una figlia abbandonata e una zia amorevole, una comunista e una diva ultrapagata, il desiderio di Fininvest (oggi Mediaset) e il fiore all’occhiello di mamma RAI, una ragazza all’avanguardia e una dama preraffaellita. Un monumento, una idola.
Lontano, lontanissimo, da tutto questo, però, Raffaella è altre mille cose ancora, centinaia di donne diverse, interi cori di creature che non abbiamo mai incontrato. Lì, in quell’isola lontana come una chimera, ha vissuto Raffaella Maria Roberta Pelloni (questo il suo nome all’anagrafe), sempre attenta a custodire i suoi spazi, i suoi silenzi e il suo pudore. È questa la più affascinante contraddizione dell’artista romagnola: Carrà si spende fino all’ultimo millimetro di pelle, si offre al suo pubblico per non lasciarlo mai, fa del suo corpo un catalizzatore di mondi e di sguardi e con quello stesso corpo parla, dice come la pensa, fa politica attiva, ci libera tutti. Prima mostra il suo ombelico, poi scopre quello di tutta Italia. Scandalizza il Vaticano toccando i fianchi di Enzo Paolo Turchi sulle note del Tuca Tuca, poi ci slaccia i pensieri, fa ballare il Paese, nei salotti e sul dancefloor, davanti ai televisori e nelle piazze, il sabato sera e ogni mattina possibile. Pelloni, invece, si ritira, rifugge l’idolatria e il pettegolezzo più insulso, scappa dalle morbosità e dagli sguardi indiscreti di chi la vorrebbe vedere fragile, mortale. Ogni tanto, sì, si racconta anche accoratamente, davanti all’Italia intera, ma sempre controllandosi per non sparpagliarsi, per rimanere fedele a sé stessa, a quel nucleo solido che la ancora alla sua storia, alla terra e alle radici. Quando lo fa, confessa il suo desiderio di maternità e i suoi fallimenti, le sue fragilità e le paure.
Raffa, la docu-serie in tre puntate diretta da Daniele Lucchetti per Disney+, si pone sulla soglia tra la dimora di Carrà e quella di Pelloni e prova a descrivere questo spazio liminale senza voler risolvere (giustamente!) il mistero. Raffa è da intendere come un romanzo aperto, una di quelle storie che procede a quadri e che, per fortuna, non si risolve, perché spesso risolvere, appiattire le contraddizioni, accendere una luce sicura sull’ombra intermittente, significa compiere un gesto estetico-narrativo goffo e inutile, che elogia le semplificazioni e annulla le sacrosante complessità. Firmato da Cristiana Farina, Carlo Altinier, Barbara Boncompagni, Salvatore Coppolino e Salvo Guercio, il documentario si compone di circa 1500 filmati originali, quasi tutti provenienti dalle teche RAI, di interventi inediti di amici, colleghi e parenti che in quello spazio di soglia, almeno per un po’, ci hanno abitato. Da Fiorello a Tiziano Ferro, fino ad arrivare al nipote Matteo Pelloni e all’assistente storica Licia Turchi. In mezzo: il regista Emanuele Crialese, Enzo Paolo Turchi, Loretta Goggi, Caterina Rita e tantə tantə altrə, tutte insieme a raccogliere i pezzi del puzzle e decidere con cura cosa condividere e cosa invece custodire. Raffaella Carrà è un segreto che rimarrà per sempre tale, ma Raffa è un gioiellino biografico, che ripudia il tentativo agiografico, per raccontare le luci e le ombre di una storia personale, intrecciata a doppio filo con quella del nostro Paese.
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