Sebastiano Pigazzi è nato nel 1996 a Boston ed è cresciuto negli USA, accompagnando il padre, un chirurgo, e la madre, Diamante Pedersoli, una designer d’interni, terzogenita del glorioso, amatissimo attore tirapugni, il simpaticissimo Bud Spencer. Dice Sebastiano che i film di suo nonno li ha visti perché – insomma – si trattava di suo nonno. Recentemente l’abbiamo visto in uno scatto super fashion con il Re della Moda Giorgio Armani alle sfilate di Milano.
Il ragazzo cerca di rispettare Bud e i suoi film nazionalpopolari (sì, quelli con Terence Hill, quando Terence non era ancora Don Matteo, ma il sodale scazzottante di Bud). Ma un po’ Sebastiano vuole anche far capire che per lui il cinema è altro.
Intanto. Il film del nonno preferito dal nipote è “Piedone l’africano”, perché – dice Sebastiano – in quel film nonno Bud appare come un gigante buono. Insomma il ragazzo da un lato porta omaggi al nonnino barba e pugni (tenero il ricordo di un viaggio in Germania, quando aveva 11 anni e vedeva che tutti i fan tedeschi sbavavano dietro a suo nonno per una foto+autografo).
Dall’altro lato, Sebastiano ci tiene a far sapere che, mentre per il nonno il cinema era un’avventura fantastica, “per me è una malattia”. E nell’infanzia pare che tutto sia accaduto a scuola. Nella recita di uno spettacolo su Shakespeare è nato l’amore per la recitazione. E poi via di provini, casting eccetera. Quindi, Pigazzi spiega che oltre a Bud Spencer, nella sua stirpe si vanta nientemeno che Giuseppe Amato, bisnonno di Sebastiano, e produttore di pellicole che hanno fatto la storia del cinema italiano: “La dolce vita” di Fellini, “Umberto D.” di Vittori De Sica, e “Un maledetto imbroglio” di Pietro Germi. Così, tanto per dire.
Dopo il suo debutto con un ruolo secondario di un personaggio di nome Enrico (stupendamente bono ndr) nella indimenticabile serie televisiva di Luca Guadagnino “We Are Who We Are“ (laddove la queerness è uno stato mentale di meravigliosa compressione: grazie, ancora grazie Guadagnino) e la partecipazione al film “Time is Up“, attualmente è impegnato nella seconda stagione di “And Just Like That…”, il sequel di “Sex and the City”. Nella serie, Sebastiano è Giuseppe, un giovane assunto nella panetteria di Anthony Marentino. Inizialmente sembra che tra i due possa esserci una storia d’amore, che poi si sviluppa in qualcosa di diverso. Presto lo vedremo nel film “Jack & Lou: A Gangster Love Story“, nel ruolo di braccio destro di Al Capone. Nel film reciterà anche nientemeno che Linda Hamilton. Qui un annuncio aul casting, che aiutano sempre molto a capire molto di un film di cui non si conosce ancora granché.
E l’Italia? E l’Italianità in questi tempi sovranisti? Quando Marco Consoli di Repubblica gli chiede come gli italiani vengano visti in America, Pigazzi va giù di pasta, pizza e mandolino e opera lirica e tutte quelle cartoline (ma basta!) amate dai dolcegabbanismi stereotipanti. Pigazzi non se ne lamenta, ma qualcosa si intuisce. Egli è un millennial di ultimo periodo (già quasi GEN Z) e – chissà, forse? – vorrebbe immaginare un’italianità diversa dagli stereotipi dell’Italietta novecentesca del dopoguerra drogato di piano Marshall? L’intervista non è così audace e politica, ma scrutando il ragazzo sui social e sui media (si chiama stalking, lo ammetto), si intuisce che parliamo di uno che sa il fatto suo, ma che sa anche gestire le pubbliche relazioni.
Quindi, Pigazzi – che con evidenza non disdegna ruoli queer – risponde alla fatidica domanda: ma gli attori gay possono interpretare ruoli etero e viceversa? (sì, oggi anche Stanley Tucci ha detto la sua su questo tema tanto discusso negli USA). Sebastiano Pigazzi su questo è chiaro e non abbocca all’onda omologante del politicamente corretto a tutti i costi. E dice che bisogna essere liberi di recitare nel ruolo che si vuole, senza limitazioni.
E c’ha ragione, è la mia opinione non richiesta.
Dice Pigazzi, in un impeto di pubbliche relazioni attentissime a non pestare m…., che gli Americani non apprezzano le restrizioni alla libertà di espressione, anche se sostengono l’uguaglianza tra le persone. E però il nipote di Bud non si tira indietro. E spiega che basta, basta a questa paura diffusa di dire qualcosa di sbagliato, per timore di diventare vittime della cancel culture. E che per questo ora sta in fissa con il cinema di Orson Welles. Perché, spiega Pigazzi, Welles metteva in discussione lo status quo e sosteneva che gli artisti dovessero esprimersi liberamente e sperimentare, invece di concentrarsi unicamente sul raggiungimento di un obiettivo. Perché gli obiettivi sono roba da profitto, materiale da far maneggiare a businessman, produttori e gente che maneggia il denaro.
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