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Skin Deep, recensione. Fluidità di Genere tra body horror e identità in movimento

Freaky Friday incontra Midsommar. Il film tedesco in corsa per il Queer Lion tra le vere sorpresa di Venezia 79.

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Arriva dalla Settimana della Critica, sezione parallela della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, uno dei film più interessanti di questa 79esima stagione. Skin Deep di Alex Schaad, 32enne qui al suo folgorante debutto. In corsa per il Queer Lion, Skin Deep è un’opera a più strati, un horror metafisico nonché una storia d’amore estrema, manifesto di fluidità all’interno di un’edizione mai tanto rappresentativa, in tal senso.

Siamo su un’isola remota e misteriosa, dove decine di coppie si ritrovano ogni anno per giocare con le rispettive identità, scambiandosele, cambiando così percezione, sessualità, genere. Freaky Friday incontra Midsommar. Un’opera coraggiosa segnata da un’idea geniale idea di fondo, quella scritta e dieretta da Schaad, che si domanda: si può essere più felici nel corpo di un altro?

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Leyla e Tristan sembrano una giovane coppia appagata e serena, se non fosse che lei sia profondamente infelice. Il suo corpo, a suo dire, è malato, le rende impossibile vivere una vita che Tristan vorrebbe passare al suo fianco. Perché innamorato. Così come Leyla è innamorata di lui. Su quest’isola distante da tutto e tutti l’esperimento può prendere forma E se Leyla e Tristan scambiassero il proprio corpo con un’altra coppia, vivendo all’interno del nuovo fisico per due settimane, cosa accadrebbe?

È un’opera che abbatte convenzioni secolari, quella in arrivo dalla Germania, perché in grado di porre domande quanto mai attuali. Si può continuare ad amare una persona che esteriormente parlando cambia completamente faccia, corpo, identità? L’apparente solidità dell’Io si sbriciola dinanzi allo script firmato da Alex e Dimitrij Schaad, con i giovani protagonisti chiamati a compiere un viaggio chiamato transizione. Skin Deep è una riflessione transgenere quanto mai contemporanea e spiazzante che ragiona sui confini dell’identità e sulle leggi dell’attrazione attraverso i corpi.

Distopico ed erotico, inquietante e al tempo stesso intrigante, nonché stimolante e dall’innegabile fascino registico, Skin Deep è la quintessenza della fluidità di genere trasportata su grande schermo, cavalcando sapientemente i generi con audacia e libertà di scrittura. L’amore che va oltre il corpo e l’attrazione fisica, in un thriller psicologico che abbraccia mutazioni identitarie alla ricerca di una felicità limitata da scheletri che non sentiamo più nostri.

Coadiuvato da un cast a dir poco impeccabile nel gestire trasformazioni caratteriali figlie di anime in movimento, Schaad ha ideato un’opera spiazzante e provocatoria, in cui si abbattono confini e limiti di genere, tra gesti estremi ed atti d’amore irriversibili. Narrativamente parlando incalzante e senza voler spoilerare alcunché,  Skin Deep parrebbe essere uscito da una delle migliori stagioni di Black Mirror.

Schaad non si perde in inutili spiegoni, lasciando non poche domande a galleggiare in superficie, senza trovare soddisfazione alcuna. In che anno siamo, dove si trova quest’isola, come fanno queste persone a scambiarsi i corpi come se parlassimo di biancheria intima?

Risposte non ne arrivano perché al regista non interessa darne, quanto mai averne. Tutto ruota attorno alla prigione imposta da consuetudini identitarie che mai come in questo momento parrebbero essere sull’orlo dell’abbattimento, al cospetto di una generazione Z sempre più dichiaratamente e orgogliosamente fluida. Schaad quella prigione la prende a cannonate, buttandola giù attraverso anime semplicemente libere. Skin Deep è un’opera prima che rimane sottopelle, sfidando lo spettatore a porsi quesiti inediti, radicali, contemporanei, provocatori, stimolanti. Quello che il buon Cinema dovrebbe porsi come obiettivo primario.

Voto: 8.5

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