Leone d’Oro nel 2008 grazie a The Wrestler, Darren Aronofsky torna in concorso alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia 5 anni dopo aver diviso il Lido con il chiacchierato Madre. The Whale, tratto da un’opera teatrale di Samuel D. Hunter, qui anche sceneggiatore, passerà alla storia per la prova d’attore di Brendan Fraser, 20 anni fa belloccio da blockbuster con il tempo lentamente scomparso. Invecchiato e al tempo stesso ingrassato, Fraser è stato letteralmente accantonato da Hollywood fino alla chiamata di Aronofsky, che gli ha affidato il ruolo di una vita.
Quello di un insegnante universitario che dopo la morte dell’amato compagno precipita nella depressione assoluta, mangiando bulicamente fino a raggiungere i 266 kg di peso. Isolato dal mondo, Charlie non esce mai di casa. Insegna a distanza, con la web cam spenta per non farsi vedere dai propri studenti. Si muove a fatica con il deambulatore. Divora pizze, panini, snack a ritmo continuo, bevendo solo bibite gassate. A visitarlo un’unica amica, Liz, sorella del defunto compagno, suicidatosi. L’unico e ultimo desiderio di Charlie è quello di costruire un rapporto con la figlia adolescente, abbandonata all’età di 8 anni, provando così a far propria l’agognata redenzione, ultima speranza di riscatto al termine di una vita segnata dal dolore e dai sensi di colpa.
Tre camere e cucina. Questo il set di The Whale, interamente girato all’interno dell’angusto appartamento del protagonista, interpretato da un Brandon Fraser mastodontico. Letteralmente. Aiutato da un’eccezionale tuta protesica di 136 kg, Fraser recita essenzialmente solo con gli occhi e con la propria profonda e meravigliosa voce. Immaginarlo in simili abiti, 25 anni dopo George re della giungla, era onestamente folle. Sotto quegli esibiti muscoli, ora lontano ricordo, si nascondeva uno straordinario attore, qui in grado di rendere credibile il profondo dolore di un uomo travolto da un lutto. La performance dell’anno, più che papabile Coppa Volpi e più che probabile Oscar nel 2023, al cospetto di una pellicola manipolatoria, tutta orientata alla commozione facile, per non dire obbligata.
L’ultima parte di The Whale è la quintessenza del cosiddetto film “ricattatorio”, con il rapporto tra Charlie e sua figlia Ellie che arriva all’inevitabile punto di rottura emotiva al termine di un infinito scontro. Interpretata da Sadie Sink, celebre Maxine “Max” Mayfield in Stranger Things, Ellie è un personaggio detestabile, irritante, scontroso, tracotante, che solo un padre dall’animo tanto gentile, così clamorosamente umano e dal cuore tanto enorme può definire ‘meraviglioso’. Tanto la figlia quanto la madre non perdonano a Charlie l’abbandono vissuto, per lo più a causa di un uomo.
L’omofobia si insinua tra colpe ed accuse abbracciando l’ambito religioso, tra credo e non credo, bisogno di perenne redenzione. Perchè nell’appartamento del professore piomba improvvisamente un giovane missionario mormone della Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni, ‘setta’ alla quale apparteneva anche l’ex di Charlie, caduto in depressione a tal punto da non voler più toccare cibo proprio a causa del rifiuto della suddetta Chiesa alla sua omosessualità. Ma Dio non può certamente condannare l’amore, che sia tra un uomo e una donna o tra due uomini. Perché le persone non sono in grado di non amare. Charlie ne è consapevole, ne è convinto, e non ha alcun rimpianto nei confronti di quell’amore mai dimenticato, con un lutto mai elaborato, tanto da voler raggiungere il compagno seguendo il medesimo percorso. Un suicidio assistito mangiando fino a morire.
50 anni dopo Marco Ferreri torniamo ad una Grande Abbuffata rivisitata in chiave moderna, con il corpo del protagonista ancora una volta segnato dalle proprie sofferenze, come già accaduto in The Wrestler e ne Il Cigno Nero, mentre il potere della letteratura si fa àncora di salvezza per questo professore di inglese profondamente legato a Moby Dick di Herman Melville. Una balena bianca in carne ed ossa, alla disperata ricerca di una liberazione emotiva. Un uomo semplice in grado di vedere il bene altrui, dalla mobilità fisica fortemente limitata, camminando a fatica a causa del proprio peso, con Aronofsky che ha dato forma ad un ulteriore senso di oppressione con un 4:3 utile a rendere ancor più claustrofobico il quotidiano di un uomo solo, marchiato dai rimpianti e dal cuore definitivamente spezzato.
Gay dichiarato e felicemente sposato, l’autore dell’opera teatrale nonché sceneggiatore Samuel D. Hunter ha impiegato 10 anni per adattare The Whale, qui diretto da Aronofsky con grande incisività su tempi, spazio e interazioni tra i pochissimi protagonisti, ma discutibile propensione al ricercare ossessivamente reazioni emotive nei confronti di uno spettatore forzatamente indirizzato allo struggimento estremo.
Voto: 5
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