La rivelazione più eccentrica, borderline e quindi etimologicamente queer di questa ventottesima edizione del Torino GLBT Film Festival sono due sorprendenti drag berlinesi. Più umane dell’umano, complementari come Chaplin e l’adorabile monello, ecco le indimenticabili protagoniste dell’emozionante doc One Zero One diretto da Tim Lienhard, scoperto per caso su Facebook dal curatore Christos Acrivulis, diventato poi il suo distributore in Germania: BayBJane è una rutilante Bette Davis postmoderna, bambola multigender che sembra uscita dritta dritta da un quadro di Bosch ma in versione tecnodrag, con tanto di occhio laser rosso come Terminator; CyberSissy è invece la matronale reincarnazione di Leigh Bowery con innesti camp in stile Divine, tette himalayane che s’impongono come missili Stud contro il conformismo e maschere aggressivo-malinconiche da teatro Kabuki. Ma sotto le mises sfavillanti si nascondono i drammi della vita problematica di due uomini che la cattiveria popolare definirebbe inesorabilmente “freaks”: Mourad Zerhouni non arriva al metro e cinquanta d’altezza, soffre di osteogenesi imperfetta a causa della quale ha le falangi di mani e piedi deformi, gli manca l’occhio destro; Antoine Timmermans è assoggettato da psicosi varie, proviene da una famiglia fortemente disfunzionale e ha frequenti crisi depressive che gli impongono ricoveri periodici.
Creature aliene immerse in un mondo a loro alieno, BayBJane e CyberSissy hanno coltivato un lungo sodalizio umano e artistico fra i club di Ibiza e Colonia di cui raccontano genesi e retroscena nel riuscito doc di Lienhard. Senza indulgere in toni patetici né sfruttando il rischioso aspetto sensazionalista della vicenda, si descrive a tutto tondo sia la straordinaria potenza icastica dei funambolici show delle due drag (hanno collaborato con Amanda Lepore e col ballerino contorsionista David Pereira) sia l’aspetto profondamente umano delle difficoltà esistenziali di Mourad e Antoine, evidenziando quanto la rinascita artistica dietro le fenomenali maschere di BayBJane e CyberSissy abbia rappresentato per loro una fuga salvifica dagli orrori quotidiani (la prima si è anche esibita domenica scorsa alla serata torinese Queever mentre la seconda non ha potuto essere presente per problemi di salute).
Lunedì sera si è visto il film sorpresa, che una sorpresa, però, non è stato: trattasi del melò israeliano Yossi di Eytan Fox, atteso seguito del military cult “Yossi & Jagger”. Meno riuscito del precedente e un po’ troppo divagante, è incentrato sulla vita da “vedovo” di Yossi (Ohad Knoller), cardiologo infelice e sconsolato dopo la morte del suo grande amore Jagger. Tra le sue pazienti riconosce la mamma di Jagger, presentatasi in ospedale per un controllo, e l’accompagna a casa per poi ripresentarsi e rivelare a lei e al marito la natura del suo rapporto col figlio. Nel frattempo Yossi inanella frustranti conoscenze occasionali con uomini conosciuti via chat. Ma quando offre un passaggio in auto a un gruppo di militari tra cui un ragazzo biondo dichiaratamente gay, decide di concedersi una vacanza nell’hotel dove loro soggiornano: sarà amore? Non si vedeva una vera e propria necessità nel dare seguito alla compiuta storia degli ufficiali gay più amati nella storia del cinema queer se non quella di sottrarre Yossi a un destino di solitudine e rimpianti amorosi. Ma il talento di limpido narratore Eytan Fox indubbiamente ce l’ha, e il film si lascia vedere, trasmettendo allo spettatore un positivo messaggio di speranza e rinnovo vitale attraverso l’elaborazione del lutto.
E la tematica della perdita degli affetti per morte prematura ricorre in altri titoli: nel naif ma sincero dramma australiano Monster Pies di Lee Galea l’impacciato liceale Mike si ritrova desolatamente solo dopo la morte per suicidio del suo amato Mike, travolto da seri problemi famigliari (padre violento, madre catatonica, sorella down). Nel grazioso White Frog di Quentin Lee è invece un ragazzo autistico, Nick, a dover accettare la perdita improvvisa dell’amato fratello Chaz che scopre essere gay con iniziale repulsione e disgusto.
Un’altra dipartita precoce ricorre nel film più stiloso di quest’edizione, Joshua Tree, 1951: A Portrait of James Dean di Matthew Mishory, elegante ricostruzione degli albori della carriera dell’iconissima hollywoodiana attraverso un raffinato bianco e nero fotografato con sapienza da Michael Marius Pessah e un’insinuante colonna sonora firmata da Arban e Steven Severin, fondatori del gruppo new wave/post punk “Siouxsie and the Banshees”. Buca lo schermo il fascinoso attore e modello James Preston, davvero somigliante al vero James Dean, rispetto al quale l’esordiente Mishory sposa la tesi di Paul Alexander, giornalista del Time autore della controversa biografia Boulevard of broken dreams, secondo cui James Dean era gay e masochista (amava bruciacchiarsi il corpo con sigarette accese). Amò ricambiato un collega convivente – secondo Alexander si trattava di Rogers Brackett, direttore di una radio – e nel film d’atmosfera visivamente intrigante è il deserto del titolo, nei dintorni di Los Angeles, a diventare luogo mitico e “sospeso” in cui rivelare insicurezze e contraddizioni di un artista sensibile e in profondo conflitto con sé stesso.
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