Zombie gay, le paludi argentine e la Deneuve in lacrime

Arrivano al Togay gli zombie arrapati di Bruce LaBruce. Non convince il drammatico Après lui di Gaël Morel con una luttuosa Deneuve mentre affascina il bianco e nero d'autore dell'argentino La Léon

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Un premio lo meriterebbe già: per la scena di sesso più originale degli ultimi anni. Uno zombie infoiatello si mette a mangiucchiare lo stomaco della vittima designata e nel foro praticato a livello gastrico si sollazza con una vigorosa e ritmata penetrazione bareback. Stiamo parlando di Otto; or up with dead people (Otto; o viva i morti) di Bruce Labruce, anarchico folletto canadese che è diventato col tempo una sorta di vessillo del cinema off a tematica omosessuale.

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La sua nuova fatica viene definita dal regista stesso «un malinconico film sugli zombie gay» ed è un bislacco pastiche sperimentale in cui LaBruce mescola abilmente stili diversi (bianco e nero espressionista, videoclip dai colori acidi e squillanti con immagini sovraesposte, horror artigianale) per raccontare di un giovane zombie omosessuale (Jey Crisfar, bravuccio) e con disordini alimentari – non mangia carne umana, meglio i conigli morti! – giunto a Berlino in autostop dove si sistema in una luna-park abbandonato presto raggiunto da altri ‘colleghi’ trapassati. Viene adocchiato da una regista underground, Medea Yarn, che sta giustappunto lavorando da anni a un film sui "pornozombie", morti viventi dall’appetito sessuale incontenibile. Decide di presentarlo alla sua attrice prediletta, Fritz Fritze, una sorta di gotica Louise Brooks postmoderna, grazie alla quale si ricorderà del suo fidanzato Rudolf.
Vitale, ritmato e ironico, vanta un’ottima colonna sonora (Othon Mataragas, Curtis Eaton, Brittle Stars, ecc.) ma a dir il vero le provocazioni di Otto ci sembrano un po’ naif e ideologicamente poco rivoluzionarie. «Ho fatto questo film sulla sinistra americana dopo l’11 settembre: sembrava completamente morta» ha spiegato il regista. «Mi succedeva spesso di parlare con giovani che si sentivano morti dentro. Mi è capitato anche di incontrare un prete cubano che aveva un approccio nei confronti della morte completamente diverso: per questo ho voluto fare qualcosa di più contemplativo, spesso la politica ci fa perdere la speranza».

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Non convince, invece, l’atteso Après lui di Gaël Morel sulla tormentata elaborazione del lutto da parte di una libraia di mezz’età, Camille, che ha perso il figlio in un incidente d’auto (si è schiantato contro un albero) e si lega in maniera quasi morbosa al suo migliore amico Franck, allontanandosi sempre più dall’altra figlia che ha appena avuto un bimbo. La presenza di una star massima come la Deneuve ha indubbiamente nuociuto al film: la macchina da presa sembra come ipnotizzata sul suo volto, spesso piangente e corrucciato, mentre il personaggio di Franck passa ingiustamente in secondo piano. Sottilmente compiaciuto, lugubre con sprazzi isterici tipici di certo cinema intellettualoide francese, non approfondisce la tematica gay (i due ragazzi stavano insieme o no?) solo accennata nella scena iniziale in cui Camille aiuta entrambi a truccarsi giocosamente da donna in camera da letto. Il finale tronco, poi, non aiuta a dare un senso compiuto all’opera.

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Il film formalmente più riuscito – ma a livello contenutistico c’è da discutere – è una curiosa opera prima argentina, La Léon di Santiago Otheguy, ambientata nel paludoso delta del fiume Paranà, il secondo fiume più lungo del Sudamerica dopo il Rio delle Amazzoni. Le occupazioni dei pochi abitanti del luogo consistono nella pesca, nell’intrecciare canne di bambù e, nel tempo libero, giocare a calcio, ma l’introverso e segretamente gay Alvaro preferisce arrotondare restaurando libri della biblioteca di un villaggio poco distante. Il burbero conducente della chiatta "la Léon", detto "Turu", non vede di buon occhio Alvaro e al bar lo dileggia dandogli del "frocio" ma in realtà ne è inconsciamente attratto. Finirà in tragedia.

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Ieratico, misterioso, dall’incedere lento e solenne, è girato con un raffinato bianco e nero digitale che rende maestosi e impenetrabili sia l’ambiente naturale descritto che l’umanità senescente quasi interamente maschile che lo popola. Peccato invece per la sceneggiatura ellittica che non riesce a infondere spessore ai due personaggi principali, il cui conflitto è quasi messo in ombra dalle suggestioni dell’ipnotico contesto in cui è immerso.
«L’idea primaria era di mostrare in che modo una persona omosessuale può vivere le proprie pulsioni in un mondo dove non si possono esprimere» ha spiegato Otheguy. «Abbiamo poi sviluppato il concetto di discriminazione. Siamo partiti dagli impulsi più basilari per analizzare come la violenza individuale si possa trasformare in sociale. Inizialmente volevamo fare un cortometraggio, poi siamo tornati sul posto un anno dopo per trasformarlo in un lungo. Il bianco e nero è stato scelto per dare una dimensione atemporale e perché la natura del posto è talmente meravigliosa che coi suoi colori avrebbe distratto l’attenzione dello spettatore. Ma anche per un motivo economico, essendo stato girato in alta definizione». Timidi applausi.

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