Cosa si può fare per combattere lo stigma legato all’HIV? Intervista alla psicologa Alessandra Bianchi

Prova a dircelo una psicologa che ogni giorno combatte contro pregiudizi e luoghi comuni legati ad AIDS e HIV.

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6 min. di lettura

Il tema dell’HIV e dell’AIDS è ancora oggi estremamente complesso.

I problemi legati al virus, a 35 anni dalla sua ‘scoperta’, sono sempre più emotivi, psicologici e di percezione sociale: se la ricerca e l’innovazione vanno avanti a ritmi ormai inarrestabili (LEGGI >), ciò che rimane incrostato addosso alla pelle di tutti noi è lo stigma.

Tantissimi volontari, professionisti e consulenti in tutto il mondo lavorano ogni giorno affinché questo stigma venga progressivamente annullato, così come i gravi problemi fisici legati alla malattia sono stati sconfitti negli anni. Ho intervistato una di queste persone: Alessandra Bianchi, psicologa clinica e psicoterapeuta del Centro Nemesis, coordina il servizio di Psicologia dell’ASA, Associazione Solidarietà AIDS Onlus, una delle più longeve associazioni di volontariato nel settore. Si occupa della presa in carico di pazienti sieropositivi e dei loro cari, di gruppi di informazione e confronto su HIV e AIDS in ambito carcerario e incontri informativi nelle scuole superiori.

Abbiamo parlato di pregiudizi, stigma, pratiche a rischio e luoghi comuni, ma anche di possibili soluzioni.

La tua può essere definita una figura di mediazione fondamentale, che sta esattamente al centro tra lo stigma sociale che deriva dall’HIV e le vittime dello stigma stesso. Come è strutturata la tua attività di counseling?

ASA Associazione Solidarietà AIDS Onlus, l’associazione per la quale lavoro, ha una serie di servizi che permettono di accompagnare la presa in carico delle persone che si scoprono HIV positive sin dalla diagnosi. Infatti, per chi viene a fare il test in associazione (una volta al mese è possibile fare quello salivare) c’è la possibilità di fare un colloquio pre e post test: questo sarebbe previsto sempre ogni volta che viene effettuato un test dell’HIV, ma pochissimi centri lo offrono. Abbiamo inoltre un servizio di counseling in accompagnamento con l’infettivologo, presso uno dei maggiori centri di malattie infettive del territorio milanese. In quel contesto, nostri counselor, esperti in materia di HIV, si occupano degli aspetti emotivi della visita: di accogliere quindi quelle che definiamo “le domande che rimangono in gola” con il medico, o perché reputate imbarazzanti da porre, o di poca importanza, stupide, all’interno di una visita. Chi non è in carico al centro dove viene offerto questo servizio può venire in sede, dove è sempre possibile (gratuitamente) trovare uno spazio di ascolto a dubbi e preoccupazioni concernenti l’HIV. Inoltre, in associazione è possibile accedere a un servizio di psicoterapia a prezzi calmierati per pazienti sieropositivi e i loro cari. Tutta questa attenzione di ASA agli aspetti psicologi è dovuta al fatto che se è vero che con l’HIV ora si può convivere (se ci si cura), e che quindi dal punto di vista medico è un problema che è sotto controllo, è un’infezione ancora molto delicata delicata dal punto di vista degli aspetti emotivi, molto legati allo stigma.

A proposito dello stigma, quali sono i pregiudizi che inevitabilmente sono ancora perpetrati dalla società e, purtroppo, anche dalle persone sieropositive?

Purtroppo, anche se è passato del tempo dalle campagne di (dis)informazione che imperversavano negli anni ’80-’90, è ancora diffuso il pensiero che in fondo, se hai l’HIV, te la sei andata a cercare. Perché sei un ragazzo/a facile, perché sei omosessuale, perché in qualche modo hai uno stile di vita riprovevole. “Se non fossi stato così, non mi sarebbe successo“. Questo è il primo pensiero, molto ancorato a quelle che una volta venivano considerate le categorie a rischio, quasi come l’HIV fosse una punizione.
Certo, è vero che nella comunità gay l’incidenza delle infezioni è più elevata che tra gli etero, ma questo dipende dal tipo di rapporti che si hanno (i rapporti anali non protetti sono per loro stessa natura più a rischio di quelli vaginali), non dal fatto stesso di essere omosessuale, ovviamente. Inoltre, a prescindere dall’orientamento sessuale, è indubbio che l’utilizzo di alcol e sostanze stupefacenti abbassi il livello di guardia e faccia utilizzare il preservativo molto meno di quanto non si farebbe normalmente. Quello che succede però è che spessissimo l’HIV si trasmette in situazioni “normali”, di cosiddetta fiducia. Purtroppo è quasi la norma non usare il preservativo quando si frequenta da un po’ una persona, qualunque sia il nostro orientamento sessuale. Questo può avere senso solo se però si fa il test prima, altrimenti non rientra tra le pratiche di safe sex. Non basta fidarsi, entrambi devono fare il test.

La paura di fare il test dell’HIV genera un meccanismo malato: molte persone preferiscono non conoscere il proprio status e rimanere nel dubbio piuttosto che controllarsi. È un fenomeno ancora molto presente?

Assolutamente sì. Spesso al servizio di counseling telefonico ci capita di confrontarci con persone che passano una considerevole parte del loro tempo a controllare ipotetici sintomi, cercare rassicurazione su di essi, oltre a cercare rassicurazione sul fatto che l’evento (più spesso gli eventi) che preoccupa non sia a rischio al 100%. Tutto questo vivendo nel terrore, pur di evitare di confrontarsi con un eventuale test positivo, identificato ancora come una diagnosi di morte.

Secondo un recente studio in Europa sono aumentati drasticamente i casi di diagnosi tardiva dell’HIV. Com’è la situazione in questo senso in Italia?

Purtroppo siamo assolutamente in linea con il trend europeo: il fenomeno dei late presenters, quindi quelle persone che scoprono di avere contratto il virus dopo parecchio tempo dall’infezione, è aumentato anche in Italia. Purtroppo spesso si corre a fare il test solo quando compaiono sintomi delle patologie cosiddette opportunistiche (quelle che arrivano quando il sistema immunitario non funziona più come dovrebbe).

Quali sono i timori e le paure più frequenti tra le persone sieropositive che si recano all’ASA per un consulto?

Le prime domande che si pongono le persone che vengono in ASA sono molto concrete: “Sopravviverò? Quanto a lungo? Come cambierà la mia vita? Come cambieranno le mie relazioni (amicali, famigliari, amorose)? A chi e come devo dirlo? I farmaci li dovrò prendere per sempre? Quanto mi cambieranno? I segni della malattia saranno visibili?”. Quello che si manifesta all’inizio è più che altro il bisogno della persona “al netto” della patologia: vengono affrontate tematiche e cambiamenti che il contatto con un evento (almeno in un primo momento) traumatico come la diagnosi di HIV ha stimolato. Dopo un po’ di tempo però la maggior parte delle persone imparano a convivere con l’HIV (spesso succede che si acceda a un percorso di psicoterapia dopo molto tempo dalla scoperta dell’infezione).

La correlazione tra infezioni da HIV e chemsex sta tornando in auge: spesso coloro che la praticano giustificano l’atto sulla base della sicurezza di riuscire a mantenere un’integrità psicofisica, anche sotto effetto di sostanze. Quanto è diffuso il problema tra i pazienti dell’ASA?

Per il momento si tratta di una minima parte, attorno al 20%. Sappiamo, confrontandoci con gli infettivologi, che il fenomeno in realtà è molto più diffuso; ma chi accede a un servizio di psicoterapia fa parte solo di una piccolissima fetta di chi effettivamente ne fa uso. Confrontandomi anche con la collega di ASA Giorgia Fracca, emerge l’impressione che il chemsex spesso non consente a noi counselor, per gli effetti realmente dannosi che ha, di metterci al lavoro con un percorso psicoterapeutico. Fino a un certo punto è vissuto come non problematico, poi quando diventa problematico diventa troppo difficile.

Il sesso non protetto è sempre più praticato: credi che questo sia dovuto ad un abbassamento del livello di guardia, giustificato dal fatto che l’HIV sia diventata una “malattia controllata”?

In effetti spesso capita di sentire questo: “Faccio bareback perché tanto se mi becco l’HIV ci sono le cure, vivo comunque, e in più posso fare sesso non protetto!“. In realtà non è così semplice: è verissimo che si vive bene, ma comunque si tratta di una patologia che ci si porta dietro con farmaci e controlli per tutta la vita (oltre agli aspetti psicologici già citati). Inoltre, non è assolutamente vero che si può fare sesso non protetto: prima di tutto perché non esiste solo l’HIV tra le MTS, e secondariamente perché non esiste un solo ceppo di virus, quindi la possibilità di reinfettarsi è alta (e di andare incontro a resistenze ai farmaci).

In Italia la PPE, Profilassi da Post Esposizione, è ancora praticamente sconosciuta: ne ha recentemente parlato un film, “Théo et Hugo dans le même bateau”. Ci spieghi di cosa si tratta?

La PPE è in pratica l‘equivalente della “pillola del giorno dopo” per l’HIV: se una persona ha corso un rischio di contrarre il virus può, entro 72 ore dall’evento, richiedere presso i centri che la distribuiscono (di solito reparti di malattie infettive e alcuni pronto soccorso) di iniziarne l’assunzione. Si tratta di una terapia antiretrovirale che verrà poi presa per un mese per evitare di sviluppare il virus. Ha un’altissima efficacia. In Italia però non viene data a chiunque la richieda: nella maggior parte dei centri viene distribuita solo in caso di accertato partner sieropositivo (meglio se questi accompagna la persona che deve iniziare la profilassi) e in caso di violenza.

Qual è ad oggi l’ostacolo più grande ad un reale controllo dell’epidemia?

Credo ci siano delle concause. Da una parte sicuramente manca l’informazione su larga scala: a parte attorno al primo di dicembre, o di fronte a storie eccezionali che mal rappresentano l’HIV nel 2016 in Italia, i mass media non ne parlano mai. A scuola è difficilissimo entrare: gli stessi dirigenti scolastici, a parte rari casi, non hanno idea di quale sia la portata dell’infezione nel nostro paese, e quindi tendono a non essere interessati a proporre (o semplicemente accettare) interventi informativi-educativi. La mancanza di una reale informazione non favorisce la diffusione dell’uso del preservativo, né tantomeno l’accesso precoce al test, strumento fondamentale per il controllo dell’epidemia. Gli stessi medici di base e ginecologi spesso hanno timore a proporre ai propri pazienti il test HIV con la naturalezza con cui si propongono altri test, in parte probabilmente ancora legati al terribile stigma collegato al virus.

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