Omosessualità e disabilità: la storia di Martina, tetraplegica e lesbica

Come si vive la doppia diversità?

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4 min. di lettura

La 27esima ora del Corriere ha raggiunto e intervistato Martina, una ragazza di 24 anni, tetraplegica e lesbica. Ecco la bella intervista di Cristina Obber che aiuta a fare qualche passo in più sulla comprensione di alcuni temi non molto trattati.

Sei fidanzata? 

Sì, con Erika. Siamo andate a vivere insieme dopo tre mesi. Dicono che le lesbiche al secondo appuntamento organizzano il trasloco, per noi è stato proprio così. Viviamo insieme da sei anni e sono innamorata come allora. Quando ci vedono insieme mi chiedono se Erika è la mia badante, quando rispondo che è la mia compagna spalancano la bocca e non sanno cosa dire. C’è lo stereotipo che il disabile debba essere asessuato, qualunque sia la sua disabilità; la gente non penserà mai che la persona al suo fianco possa essere il partner.  Il disabile deve suscitare compassione, non può essere attraente a livello sessuale. Questo almeno è quello che fa trasparire la società, poi le persone vivono la propria vita.

Come te? 

Sì, io ho una vita normalissima e appagante come qualsiasi altra persona, con la differenza che sono seduta su una sedia. Però ho una vita normale, anzi, non cambierei la mia vita per una vita diversa.

Come te? 

Sì, io ho una vita normalissima e appagante come qualsiasi altra persona, con la differenza che sono seduta su una sedia. Però ho una vita normale, anzi, non cambierei la mia vita per una vita diversa.

Come si chiama la tua disabilità? 

Tetraparesi spastica.

Per non sentirsi oggetto di compassione ci vuole una grande famiglia alle spalle in questa società condizionata e condizionante?

Sicuramente sì. La famiglia è quella che permette a una persona di accettarsi con serenità e di affrontare la propria diversità pubblicamente, sentendosi supportata. Se non c’è la famiglia è molto più difficile arrivare all’obiettivo di essere felice, soprattutto se una persona ha un carattere debole, e non siamo tutti forti.

Hai avuto difficoltà nel fare coming out? 

No, vivendo già una diversità fisica sapevo cosa voleva dire affrontare quotidianamente gli altri. Ho sofferto alle elementari, quando mi chiamavano Lazzaro e mi escludevano dai gruppi, e anche alle medie. Durante le superiori ho scelto di non dichiararmi a scuola perché frequentavo un istituto privato a Lecco, un ambiente bigotto rispetto a Milano dove ero cresciuta, e dove girava voce che un ragazzo gay aveva dovuto cambiare scuola. Lo sapeva la mia educatrice, che non mi ha mai tradito ed ora siamo anche amiche, e lo sapeva la mia migliore amica che si dispiaceva che tenessi segreto un sentimento così forte, perché quando si è innamorati si vorrebbe gridarlo al mondo. La preside era una suora e io per precauzione mi sono dichiarata il giorno in cui ho preso il diploma. Qualcuno lo sospettava, qualcuno si è stupito, qualcun altro è sparito ed è stato meglio così.

Fuori dall’ambiente scolastico era tutto più semplice? 

Con mia mamma è stato molto semplice, anche perché le mamme capiscono anche i segreti. Tra parenti e conoscenti qualcuno mi chiedeva perché mi dichiarassi, che bisogno c’era, e io rispondevo che non facevo male a nessuno, dicevo solo agli altri cosa mi piace e cosa no. Il problema ce l’ha chi non mi accetta, mica io.

Anche in questo la famiglia conta. 

Moltissimo. Prima si deve capire che le persone che non ti accettano non ti meritano, poi a chi rivolgersi per farsi aiutare. La mancanza di un supporto familiare può favorire scelte disperate e questo è un tema che mi tocca profondamente. Mi addolora pensare che una persona si senta sola e diversa, che possa pensare di arrivare ad uccidersi. Io spingo sempre tutti a dichiararsi; ma dipende anche dalle situazioni, bisogna comunque proteggersi. Ci sono famiglie con mentalità antiche e dove quindi tutto è più difficile. Quando sei diversamente abile e per di più lesbica ti aiuta molto avere una persona a fianco, ti fa avere più fiducia in te stessa e nelle persone. Una relazione affettiva e sessuale ti fa sentire davvero che non ti manca niente. La mia compagna mi ha fatto sentire donna come se fossi stata in piedi, come se non avessi la sedia. Da ragazzina mi chiedevo spesso se mai qualcuno mi avrebbe desiderata, se avrei potuto vivere in una casa mia, fare l’amore, fare le cose che fanno tutti. Ho avuto dalla vita tutto quello che immaginavo per il mio futuro e per questo sono tanto felice.

Come passi le tue giornate? 

Scrivo e leggo molto, in attesa di trovare un lavoro. Ho lavorato per tre anni in un ufficio dove inserivo dati su una piattaforma digitale; ma da quando sono tornata a vivere a Milano, due anni fa, non ho ancora trovato un lavoro; lo sto cercando. Negli ultimi quattro anni ho subito due interventi molto delicati, uno alla colonna vertebrale e uno all’anca, che mi hanno costretta a fare molte trazioni e fisioterapia. Ora sto bene ma fisicamente sono ancora un po’ indebolita e così la sera usciamo poco. Poi è passato il tempo delle serate nei locali a far casino, ho voglia di tranquillità, mi godo anche le serate sul divano con la coperta a guardarci un film, è un po’ da vecchi ma mi piace.

Sei sempre riuscita a fare la vita di una ragazza comune… 

Sì, anche se a volte in discoteca mi guardavano come a dire “Che ci fai qui?”. Questo non è accaduto nei locali frequentati da lesbiche, le donne sono sempre state molto più accoglienti nei miei confronti.

Ci si abitua agli sguardi imbarazzati? 

Se un bambino mi chiede “Perché sei seduta lì?” gli rispondo “Amore perché sono nata troppo presto e non posso camminare come te”. E il bimbo dice “Ah, ho capito”. Sono gli adulti che hanno problemi e con loro ci vuole un po’ di ironia. Se un’anziana mi chiede cosa mi è capitato rispondo che non mi è capitato niente, che sono nata così. Se poi arriva il “Poverina, tanti auguri!” io rispondo “Tanti auguri a lei, che ne ha più bisogno”. Quando una persona mi fissa, in un negozio o in un ristorante, la guardo e dico “Vuoi una foto? 5 euro!”. E la smettono.

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