Giada Biaggi non si sente più in colpa: ‘Abbi l’audacia di un maschio bianco’, l’intervista

L'autrice ci ha parlato del suo nuovo libro, di arte e capitalismo, personaggi maschili complessi, e lo sforzo di essere più gentili.

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Foto: Matteo Gerbaudo
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La prima volta che ho incontrato Giada Biaggi eravamo ospiti a Citofonare Passoni per la finale di Sanremo (il talk show social based realizzato da Diego Passoni e dedicato al Festival ndr).

Come ogni situazione sociale che coinvolge cameraman, microfoni, e riflettori puntati, avevo un’ansia che andava a braccetto con l’urgenza di sciogliermi un po’: lei fu così gentile da ubriacarsi insieme a me durante la diretta e perdere completamente il filo del programma.

Biaggi assomiglia a qualcuna che potresti incontrare dentro un film di Woody Allen, se quel film fosse scritto e diretto da una ragazza bionda con trecce vittoriane, camice Miu Miu, e maglioncini tirolesi. È autrice, stand up comedian, scrittrice e ogni volta che parla è una cascata di riferimenti culturali, che vanno da Jacques Lacan a Lana Del Rey. Se la seguite su Instagram, potreste riconoscerla come la vostra amica radical chic che al bar chiede un cappuccino con caffè d’orzo poca schiuma, tazza bollente, e cappuccino tiepido. Su Spotify potreste aver ascoltato il suo podcast Philosophy & The City dove vi parla dei boxer di Nietzsche e del punto d’unione tra Carl Max e Sferabbasta. Durante i suoi spettacoli ha il numero di telefono proiettato su Kristen Dunst in Melancholia come sfondo, definendosi così single da farsi orbiting da sola. Dichiara che dentro di lei abitano due donne: Hannah Arendt e Ambra Angiolini. Ma mentre chiacchiera con me si definisce la donna cis che piace ai gay,  a metà tra Amanda Lear e Taylor Swift. Ama prendersi gioco del ‘complex female character‘ ovvero quel prototipo che vuole i personaggi femminili ‘complessi’ perché rappresentati con otto tic diversi e capelli di quattro colori (mentre il personaggio maschile complesso, al massimo,  alza la tavoletta del cesso quando fa pipì).

 

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Dopo il suo primo libro I Bikini di Sylvia Plath, in questi giorni la trovate anche in libreria con il secondo romanzo, Comunismo a Times Square, una parabola sulla decadenza dell’arte nella società occidentale ambientata nella New York degli anni Dieci. Ma anche una storia profondamente romantica accompagnata dall’orgasmo di Yoko Ono al MoMA, il suicidio di Alexander McQueen, Pete Doherty insieme a Kate Moss, e il suicidio di Sarah Kane.

Per tutto il resto, passo la parola direttamente a lei.

Sylvia Plath scriveva: In March I’ll be rested, caught up, and human/ A Marzo sarò riposata, coinvolta, e umana. Ci sentiamo anche noi così?

Riposata no. È una dimensione che non conosco: non sono mai andata oltre la seconda lezione di qualsiasi tipo di yoga. Sono un po’ iperattiva, e non so se mi diagnosticheranno prima o poi qualche forma di autismo. Però umana, sì. Non sono una di quelle persone che si definisce empatica. Però cerco di essere sempre gentile anche con chi mi tratta male. Non voglio più rispondere all’ira e alla stizza con ira e stizza. Nella mia gioventù ero molto aggressiva, ora se uno mi tratta male faccio esercizio di gentilezza.

In questo libro dichiari di aver scritto personaggi maschili polidimensionali e complessi.

Sì, perché spesso si dice che nella letteratura femminile gli uomini appaiono macchiettistici, un po’ ripetendo lo stesso “errore” che hanno fatto per una vita con noi donne. In questo libro ho voluto dare importanza sia al personaggio femminile, sia ai due personaggi maschili che sono tutti sbagliati, ma sbagliati nello stesso modo, no? Gli uomini hanno duemila anni di patriarcato alle spalle ed è impossibile che se ne spoglino di punto in bianco solo perché abbiamo detto che non dovete tassare gli assorbenti. Nella mia esperienza ho incontrato uomini che cercano di fare del loro meglio, ma la loro natura rimane quella. Ci pensavo mentre guardavo Supersex, la serie su Rocco Siffredi: per l’uomo etero bianco classico la monogamia e non essere servi della figa è davvero uno sforzo ancestrale. In questo libro vorrei dare conto a questa lotta che ogni uomo vive dentro di sé, e con cui forse anche noi donne dovremmo un po’ empatizzare. Forse sempre perché cerco di essere più gentile, sto cercando un po’ di smetterla con il J’accuse continuo, o al massimo ridurlo ad un stratagemma retorico per la stand up comedy. Nella scrittura volevo essere più conciliante, ed è stato anche molto liberatorio immaginare di avere un pene e dominare il mondo. Ad un certo punto nel libro c’è un’orgia un po’ Bret Easton Ellis un po’ Eyes Wide Shut alla Soho House dove ho immaginato cosa significa essere un uomo molto benestante con una sfilza di figa davanti a sé.

Chi è il complex male character secondo te?

Ryan Gosling, Elliot Page, e  il cane di Anatomia di una Caduta.

Perché hai scelto di ambientare questo libro a New York? Ci sei mai stata?

Nella verità ci sono stata giusto qualche settimana per fare robe molto turistiche tipo i tour di Sex & The City o un paio di selfie al MoMA. Ma nella vita leggo praticamente solo letteratura americana, guardo solo film americani, e New York è sempre stata una mia passione soprattuto visiva. Anche Girls penso l’avrò vista almeno trenta volte. Con la fantasia non sono a Milano, ma lì. Poi sono super appassionata della New York che va dal 2006 al 2011, ho visto mille documentari su quel periodo, so quali erano i locali più cool di quell’epoca. Con il primo libro non mi sentivo così coraggiosa ad ambientarlo dentro una città dove non ho mai vissuto, anche se devo dire la letteratura ti permette benissimo di farlo: puoi ambientare un libro dove cavolo vuoi, e forse lo rendi anche più verosimile non vivendoci, perché cogli gli aspetti di quel luogo che sono universali. Paradossalmente è più letterario scrivere di una città non abitandoci, che abitandoci, no?

Io non sono mai stato a New York ma abito a Milano e spesso sento questo cliché a cadenza regolare dove definisce “Milano la nostra New York”. Secondo te è vero?

No. A parte per le dimensioni, perché Milano è molto più piccola e meno cosmopolita, mentre a New York è quasi impossibile re-incontrare la stessa persona. Ma poi c’è un livello di stranezza che non è verosimile con Milano. Anche per questo tanti film sono ambientati a New York, perché c’è un certo stile di vita che può essere solo newyorkese. Quindi secondo me è una cazzata.

 

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Giorni fa Lady Gaga ha detto che capitalismo e arte possono essere amiche. Cosa ne pensi?

Il libro riflette proprio su questo: si chiama Comunismo a Times Square perché prende nome da questi tre minuti a New York chiamati ‘Midnights moments’ dove alle 23:57 le pubblicità spariscono e a schermi unificati vengono trasmesse delle performance di video art. Nel libro c’è un documentarista  che appena vede proiettato il suo documentario sul cervello di Albert Einstein dice: il comunismo è arrivato a Times Square! Diventa un po’ anche una metafora della nostra vita: io faccio copyright per vivere, talvolta brand content, ma poi scrivo anche un libro e parlo di cultura. L’arte sembra qualcosa un po’ aulico, ma se vuoi che l’arte e il capitalismo non convivano nella tua vita devi essere un Elkann. Anche io sono stata criticata da una certa cerchia perché sono passata da un editore indipendente ad un editore mainstream, ma l’editore mainstream mi permette di più di vivere di scrittura (pur facendo anche altre cose, perché non ci vivi lo stesso comunque). A questo proposito, il filosofo Helbert Marcuse dice che l’arte non è politica per il contenuto, ma per la messa in forma del contenuto. Per intenderci, puoi fare un film super di sinistra come La Zona d’Interesse pur descrivendo la vita di una famiglia di nazisti. L’arte ha un suo modo di essere politico che è legato alla dimensione estetica, e non è legato a quanti soldi girano intorno all’arte. L’aspetto politico dell’arte è slegato tanto dal contenuto quanto dal capitale. Se i Beatles fossero vivi e oggi riempissero Wimbledon, non renderebbe meno politica o inclusiva la loro musica. Fatto sta che nessuno nella propria vita riuscirà a distruggere il capitalismo, quindi forse il capitalismo servito all’arte è la migliore declinazione possibile per questo momento storico. I soldi di per sé secondo me non sono connotati politicamente, e se in quanto minoranza ti pagano e usi quei soldi per fare qualcosa di progressista, ben venga.

Quando i critici parlano male di un libro o un film, spesso criticano il fatto che quell’autore o autrice sia ‘autocompiaciuto’. Per te è un male autocompiacersi della propria scrittura?

No, io oggi sono più autocompiaciuta perché sento un maggiore controllo del mezzo. Poi la settimana prima che il libro uscisse, sostenevo facesse schifo, ma secondo me ci sta anche dire: ho scritto una bell’articolo, ho fatto un bel lavoro, ho fatto il meglio che potevo fare con i mezzi che ho. Ovviamente vogliamo sempre fare di meglio, ma un sano volersi bene anche artisticamente è positivo. Io non sono per la poetica della perenne insoddisfazione: a 32 anni questo libro mi sembra la cosa più matura che sono riuscita a fare, ma sono solo dieci anni che scrivo. Ci sta darsi una pacca sulla spalla ogni tanto senza sfociare nell’arroganza. Anche da persone vessate in società, talvolta mostrarsi un po’ con l’audacia caucasica del maschio bianco. Quanto siamo abituate a vedere uomini spostare un bicchiere e sentirsi un genio, e appena lo dice una donna deve sentirsi in colpa di essere brava?

All’inizio del romanzo lui chiede a lei “Sai morire?” parlando del suicidio di Sarah Kane. Hai dichiarato che è la frase più romantica che vorresti sentire durante un appuntamento. Perché?

Io sono super romantica che non è mai stata innamorata o amata davvero. Si chiedevano come facessero le sorelle Brontë a scrivere d’amore senza aver mai avuto una storia importante, ma secondo me l’amore sanno scriverlo persone che non sono mai state amate. Come se riuscissi a farlo esistere solo in maniera fittizia. Ogni volta che esco con qualcuno e non va bene o mi tratta male, vorrei chiedere loro  se sono coscienti della nostra finitudine? Sanno che è davvero limitato il tempo in cui viviamo? Quindi l’idea che una persona si innamori di te insegnando la morte scenica, la trovavo una capitolazione argomentativa e performativa del senso ultimo dell’amore. È anche una tautologia che ti chiede: sai vivere? Sai che finirà tutto questo? C’è questa frase di Heidegger che mi piace molto che dice: la morte possibilizza le possibilità. Nel senso che noi tutti dovremmo vivere la morte come il momento di ogni istante. Questa cosa ci porterebbe a vivere meglio e trattare bene gli altri, pensando alle conseguenze di come ogni cosa che facciamo ha un impatto sulla loro vita e su quella degli altri.

Anche con questo libro andrai a rispondere alle recensioni su Good Reads?

Sì. Certe persone devono darsi una calmata su Good Reads. Molti mi dicono che è una cosa infantile, ma quando mi scrivono  ‘sei una raccomandata’ o ‘non hai mai letto un libro’ io gli metto il link di quando ho scritto per l’Harvard Review. La critica costruttiva l’accetto, ma spesso è solo odio puro. Non lo faccio tutti i giorni, ma se sono in preciclo e mi visualizzano senza rispondere, mi sfogo e insulto uno su Good Reads. Non so se è giusto o sbagliato, a me fa stare meglio.

Ti saluto con una citazione di Lana Del Rey: hope is a dangerous things for a woman like me to have, but I have it. Tu in cosa speri?

La mia speranza in questo momento in Italia è che possa esistere un’arte mainstream non trash. Che l’Italia esca da questo Berlusconismo, e ci sia un rinascimento culturale e coincida anche con un rinascimento politico perché secondo me tra Giorgia Meloni e il dominio della cultura trash c’è una grande analogia.

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